MORVIDUCCI CLAUDIA

Professore Ordinario    Vai alla scheda del docente
Settore scientifico disciplinare di riferimento  (IUS/14)
Ateneo Università degli Studi ROMA TRE 
Struttura di afferenza Dipartimento di GIURISPRUDENZA 

Orari di ricevimento

Orari lezione 2018/2019 Diritto dell’Un.Eurpea M/Z aula 7, lunedì ore, 16-18; martedì, ore 10.15/12; mercoledì, ore 8.30/10 Orario ricevimento nei mesi di dicembre/gennaio: dicembre mercoledì 4 e 11, ore 10-12 mercoledì 17, ore 11-13 gennaio martedì 14 e 28, ore 11.30-13 Programma di esame Mengozzi, Morviducci, Istituzioni di diritto dell'Unione europea, Padova, 2'018 Morviducci, I diritti dei cittadini europei, Torino 2017 La prova di esame consiste in uno scritto a domande aperte (4 domande cui rispondere in 2 ore).
Chi supera lo scritto, sosterrà un esame orale.
Non sono previste prove intermedie o esoneri. Materiale per il corso di Diritto dell'unione europea: diritto UE/diritto degli Stati membri: I rapporti tra diritto comunitario e diritto interno.
I rapporti tra diritto comunitario e dell’Unione europea e diritto interno nella giurisprudenza e nella normativa comunitaria e dell’Unione a) Il silenzio del Trattato CEE sui rapporti tra diritto comunitario e diritti interni b) La giurisprudenza della Corte di giustizia c) Progressivo adeguamento degli ordinamenti interni Sub.
A) Inesistenza di una definizione dei rapporti tra diritto comunitario e diritti degli Stati membri nel Trattato Presenza in alcune Costituzioni degli Stati di norme sui rapporti tra diritto interno e comunitario Carattere spesso meramente permissivo della partecipazione dello Stato alla Comunità delle norme costituzionali Tentativo di formalizzare il principio del primato in un articolo della Costituzione europea: art.
I-6 La Dichiarazione n.
17 allegata al Trattato di Lisbona Sub B) L’opera ricostruttiva della Corte di Giustizia nella sua qualità di interprete del diritto comunitario. Sub C) Progressiva accettazione del primato da parte degli ordinamenti nazionali Riaffermazione comunque dell’esistenza del limite del rispetto dei principi fondamentali degli ordinamenti interni La sentenza della Corte costituzionale tedesca del 2009: una posizione interlocutoria? La giurisprudenza successiva. La qualificazione dell’ordinamento comunitario come un ordinamento di nuovo genere nella sentenza Van Gend en Loos del 1963 La prevalenza “funzionale”del diritto comunitario sul diritto interno: la sentenza Costa ENEL del 1964 La prevalenza “formale” del diritto comunitario sul diritto interno: la sentenza Simmenthal del 1978: tale prevalenza concerne sia il diritto pattizio che quello derivato La regola che i giudici devono attenersi al principio del primato del diritto comunitario, disapplicando le norme interne incompatibili Determinazione dell’ambito del diritto dell’Unione (sentenza Kamperaj ) Il principio di cooperazione (sentenze Factortame, Unibet) La possibilità di un conflitto tra principio della certezza del diritto e principio del primato nel caso di sentenza passata in giudicato (caso Lucchini) Obbligo di cooperazione tra giudice dell’Unione e giudici azionali: la sentenza Melki I rapporti tra diritto comunitario e dell’Unione e diritto italiano nella normativa e nella giurisprudenza della Corte costituzionale (Lezione 8) I) I rapporti tra diritto comunitario e dell’Unione europea e diritto italiano nella giurisprudenza della Corte costituzionale a.
L’art.
11 della Costituzione b.
Il sindacato di costituzionalità delle norme comunitarie c.
Il sindacato di costituzionalità delle norme interne che derogano a norme comunitarie d) l’art 117 Cost.
sub a) L’art.
11 come fondamento costituzionale dell’adesione alle Comunità: la sentenza Costa ENEL n.
6/64 Idem, le sentenze n.
348 e 349 del 2007 Sub b) L’impossibilità di un sindacato di costituzionalità su un regolamento comunitario: la sentenza Frontini n.
183/73 Esistenza del limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento La sentenza Fragd n.
232/89 ; sentenza Admenta del Consiglio di Stat0 Sub c) Sub c 1) Il problema del sindacato costituzionale di norme interne che deroghino a norme comunitari direttamente applicabili La sentenza della Corte costituzionale n.
6/64 nel caso Costa Enel La giurisprudenza successiva: la sentenza ICIC n.
232/75 e l’incostituzionalità di norme interne che deroghino a regolamenti comunitari Incompatibilità tra le conclusioni della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia Un avvicinamento della Corte costituzionale alla Corte di giustizia con la sentenza Granital n.
170/84: la legge interna incompatibile col diritto comunitario deve essere disapplicata dal giudice di merito e non spetta alla Corte cost.
pronunciarsi.
Solo se la legge interna sia volta a impedire il funzionamento del Trattato Ce vi sarebbe violazione dell’art.
11 Estensione della giurisprudenza Granital alle direttive direttamente efficaci e alle sentenze interpretative e di condanna della Corte di giustizia Resta però ferma l’esigenza di abrogare le norme interne incompatibili per ragioni di certezza del diritto Sub C 2) Violazione delle norme comunitarie non direttamente efficaci La Corte va adita per farle pronunciare l’illegittimità della norma interna configgente (art.
117) La Corte opera il rinvio pregiudiziale anche nei ricorsi in via incidentale nel nei casi la Corte stessa è chiamata ad operare un controllo sul rispetto, da parte della normativa primaria interna, delle norme dell’Unione prive di effetto diretto (vedi sull’ordinanza n.
207 del 2013 della Corte costituzionale)* Sub C 3) Le sentenze sui conflitti di attribuzione La giurisprudenza Granital si riferisce solo ai giudizi incidentali, non ai conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato La Corte può decidere su ricorsi presentati da Stato o regioni sulla costituzionalità di leggi statali o regionali confliggenti con il diritto comunitario Nell’ambito di uno di questi ricorsi per la prima volta nel 2008 la Corte cost.
ha adito la Corte di giustizia in via pregiudiziale Rinvio anche in caso di ricorsi incidentali, ordinanza 207/13. Sub C 4: l’art.
117 Cost. Scarsa rilevanza ha avuto sulla configurazione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno la nuova dizione dell’art.
117 Cost.
Per la Corte, vale ancora la giurisprudenza Granital sui rapporti tra diritto Ce e diritto italiano: l’art.
117 opera solo per i conflitti tra Stato e regioni II) .
L’adattamento dell’ordinamento italiano alle norme comunitarie non direttamente efficaci a) Necessità di dare attuazione alle norme comunitarie non direttamente efficaci b) La legge comunitaria c) la Legge 324/2013 Sub A) Le direttive e diverse decisioni necessitano di attuazione negli ordinamenti interni In Italia si è proceduto inizialmente delegando il Governo a dare attuazione agli obblighi derivanti dai Trattati e dalle norme derivate Problemi di compatibilità di tali deroghe col dettato dell’art.
76 Cost. Un primo tentativo di razionalizzare la materia fu la legge 16 luglio 1987, n.
183 Sub B) Successivamente fu adottata la legge 9 marzo 1989 n.
86, c.d.
legge la Pergola.
Tale legge mirava a garantire una puntuale e periodica attuazione degli atti comunitari e disciplina la partecipazione di Parlamento e regioni alla c.d.
fase ascendente.
In tale legge sono contenute le norme necessarie per abrogare le norme interne incompatibili e per dare attuazione ai nuovi atti comunitari Non sempre il criterio dell’annualità è stato rispettato. Gli strumenti per dare attuazione alle norme non direttamente efficaci La legge La Pergola, dopo varie modifiche, è stata sostituita dalla legge 4 febbraio 2005, n.
11.
La modifica si è resa necessaria a seguito dell’entrata in vigore della riforma del Titolo V Cost.
e al nuovo ruolo delle regioni. Sub C) Infine, è stata adottata la legge n.234/2013 contenente Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea. Fase ascendente.
Fase discendente Attuazione regionale Controlimiti Corte di giustizia dell’Unione europea COMUNICATO STAMPA n.
95/15 Lussemburgo, 8 settembre 2015 Sentenza nella causa C-105/14 Ivo Taricco e altri Impedendo, nei casi di frode grave in materia IVA, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni, a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve, la normativa italiana potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione In un caso del genere, il giudice italiano deve, all’occorrenza, disapplicare il regime della prescrizione complessiva in esame Nei confronti del sig.
Ivo Taricco e di altre persone è stato promosso, in Italia, un procedimento penale con l’imputazione di aver costituito e organizzato, tra il 2005 e il 2009, un’associazione per delinquere, nell’ambito della quale gli imputati hanno posto in essere operazioni fraudolente note come «frodi carosello».
Grazie a società interposte e a falsi documenti, tali persone avrebbero acquistato bottiglie di champagne in esenzione da IVA.
Queste operazioni avrebbero consentito a una società, denominata Planet, di acquistare tali bottiglie a prezzo inferiore a quello di mercato, in tal modo falsando quest’ultimo.
La Planet avrebbe ricevuto fatture emesse dalle società interposte per operazioni inesistenti.
Le stesse società avrebbero tuttavia omesso di presentare la dichiarazione annuale IVA o, pur avendola presentata, non avrebbero comunque provveduto ai corrispondenti versamenti d’imposta.
La Planet avrebbe invece annotato nella propria contabilità le fatture emesse dalle suddette società interposte detraendo indebitamente l’IVA in esse riportata e, di conseguenza, avrebbe presentato dichiarazioni annuali IVA fraudolente.
Una parte dei reati per i quali si è proceduto nei confronti del sig.
Taricco e delle altre persone si è estinta per effetto della prescrizione, mentre gli altri reati risulteranno prescritti al più tardi l’8 febbraio 2018, senza che possa essere pronunciata una sentenza definitiva, per via della complessità delle indagini e della lunghezza del procedimento.
In Italia, una situazione del genere non è inconsueta a causa della peculiarità del diritto italiano, che permetteva, dalla data dei fatti, una proroga del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata (ossia, nella fattispecie, per un tempo compreso tra i 7 e gli 8 anni, in totale, termine insufficiente per ottenere una sentenza definitiva in cassazione).
Ne consegue che il sig.
Taricco e le altre persone sospettate di aver commesso una frode [in materia di] IVA per vari milioni di euro potranno beneficiare di un’impunità di fatto dovuta allo scadere del termine di prescrizione.
Il Tribunale di Cuneo, investito del procedimento, ha chiesto alla Corte se, finendo col garantire l’impunità alle persone e alle imprese che violano le disposizioni penali, il diritto italiano non abbia creato una nuova possibilità di esenzione dall’IVA non prevista dal diritto dell’Unione.
Con l’odierna sentenza, la Corte rammenta, anzitutto, che, secondo l’articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), gli Stati membri devono lottare, con misure dissuasive ed effettive, contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione e, in particolare, prendere le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro propri interessi finanziari.
La Corte rammenta inoltre che il bilancio dell’Unione è finanziato, tra l’altro, dalle entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati, ragion per cui esiste un nesso diretto tra la riscossione di tali entrate e gli interessi finanziari dell’Unione.
In considerazione di tali elementi, il giudice italiano dovrà verificare se il diritto italiano consente di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
Così, il diritto italiano sarebbe contrario all’articolo 325 TFUE qualora il giudice italiano dovesse concludere che un numero considerevole di casi di frode grave non può essere punito a causa del fatto che le norme sulla prescrizione generalmente impediscono l’adozione di decisioni giudiziarie definitive.
Analogamente, il diritto italiano sarebbe contrario all’articolo 325 TFUE se stabilisse termini di prescrizione più lunghi per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Italia che per quelli che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
Così sembra essere, poiché il diritto italiano non prevede alcun termine di prescrizione assoluto per il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco.
Qualora il giudice italiano dovesse ravvisare una violazione dell’articolo 325, egli sarà allora tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, le norme sulla prescrizione controverse.
Infatti, l’articolo 325 TFUE ha per effetto, in base al principio del primato del diritto dell’Unione, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della sua entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente. IMPORTANTE: Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione.
La Corte non risolve la controversia nazionale.
Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte.
Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.
Documento non ufficiale ad uso degli organi d'informazione che non impegna la Corte di giustizia.
Il testo integrale della sentenza è pubblicato sul sito CURIA il giorno della pronuncia Corte Costituzionale, Ordinanza n.
24 del 2017, deposito 26 gennaio 2017 (ud.
23 novembre 2016) Presidente Grossi, Redattore Lattanzi Diamo immediata notizia, riservandoci di pubblicare un approfondimento nelle prossime settimane, dell’ordinanza depositata dalla Corte Costituzionale in merito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione, terza sezione penale, e dalla Corte d’appello di Milano a seguito della sentenza Taricco. Ricorderanno i Lettori che era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art.
2, l.
2 agosto 2008, n.
130, che ordina l’esecuzione del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come modificato dall’art.
2 del Trattato di Lisbona, nella parte in cui impone di applicare l’art.
325, § 1 e 2, T.F.U.E., dalla quale – nell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, 8 settembre 2015, causa C– 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt.
160, co.
3, e 161, co.
2, c.p., in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di IVA, anche se dalla disapplicazione, e dal conseguente prolungamento del termine di prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per contrasto di tale norma con gli artt.
3, 11, 25, co.
2, 27, co.
3, 101, co.
2, Cost. Con ordinanza n.
24 del 2017, la Consulta ha disposto di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art.
267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le seguenti questioni di interpretazione dell’art.
325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato: – se l’art.
325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; – se l’art.
325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; – se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro. La Corte Costituzionale ha chiesto che le questioni pregiudiziali siano decise con procedimento accelerato. Cristiano Cupelli LA CORTE COSTITUZIONALE ANCORA NON DECIDE SUL CASO TARICCO, E RINVIA LA QUESTIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA Corte cost., ord.
26 gennaio 2017, n.
24, Pres.
Grossi, Est.
Lattanzi Per scaricare l'ordinanza clicca qui. 1.
Con l’attesa ordinanza n.
24 del 2017 della Corte costituzionale, depositata lo scorso 26 gennaio, l’ormai celebre caso Taricco si arricchisce di un ulteriore tassello, senza che tuttavia la vicenda, al crocevia dei rapporti tra diritto dell’UE e diritto penale, giunga a conclusione. La Corte costituzionale, infatti, optando per una soluzione ‘diplomatica’, decide di rinviare in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia la questione, chiedendo in sostanza di avallare la lettura ‘costituzionalmente conforme’ proposta della sentenza dell’8 settembre del 2015 che, se confermata, consentirebbe di superare i dubbi di legittimità costituzionale avanzati dai giudici italiani rimettenti.
Si tratta del secondo rinvio pregiudiziale compiuto dalla Corte costituzionale italiana in via incidentale (dopo il precedente dell’ordinanza 18 luglio 2013, n.
207 in materia di personale scolastico) e il primo in cui viene evocato un possibile conflitto con i principi supremi dell’ordine costituzionale. In estrema sintesi, la Corte di Giustizia è sollecitata a chiarire se l’art.
325, paragrafi 1 e 2, del TFUE “debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato”: - anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; - anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; - anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro. Nonostante il carattere interlocutorio della decisione, non mancano, nel corpo della densa motivazione, puntualizzazioni di grande rilievo e prese di posizione significative, certamente idonee a rinfocolare il già acceso dibattito sui tormentati rapporti tra principi costituzionali, fonti sovranazionali e (pronunce delle) Corti in materia penale. 2.
Andando con ordine, la questione sottoposta al sindacato costituzionale - con distinte ordinanze dalla Terza Sezione penale della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Milano – concerne, come è noto, l’art.
2 della legge 2 agosto 2008, n.
130, nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art.
325, §.1 e 2, TFUE, come interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza Taricco dell’8 settembre 2015. Con tale pronuncia la Corte di Giustizia, sollecitata dal GUP presso il Tribunale di Cuneo[1], ha affermato l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disciplina interna in materia di atti interruttivi della prescrizione, così come emergente dagli artt.
160 e 161 c.p., allorquando ritenga che tale disciplina (fissando un limite massimo al corso della prescrizione pari, di regola, al termine prescrizionale ordinario aumentato di un quarto) impedisca allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di effettiva tutela degli interessi finanziari dell’Unione, imposti dall’art.
325 del TFUE, nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti non punite in un numero considerevole di casi[2]. Due le ipotesi di incompatibilità degli artt.
160 e 161 c.p.
con il diritto UE ravvisate: la prima, con riferimento all’art.
325, par.
1 TFUE, allorquando il giudice nazionale ritenga che dall’applicazione delle norme in materia di (interruzione della) prescrizione derivi, “in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave” in materia di IVA o di interessi finanziari dell’Unione europea, di talché la normativa interna impedisca l’inflizione di sanzioni effettive e dissuasive per tali condotte (§.
47); la seconda, con riferimento all’art.
325, par.
2 TFUE, nel caso in cui il giudice interno verifichi che la disciplina nazionale contempli per i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari interni termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode (di natura e gravità comparabili) lesivi di interessi finanziari dell’UE (§.
48).
In particolare, l’obbligo di assimilazione si è ritenuto violato a fronte della comparazione con il delitto di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco (art.
291-quater d.P.R.
n.
43 del 1973), rispetto al quale il diritto interno non ha previsto alcun termine assoluto di prescrizione; con l’effetto che tale fattispecie non è assoggettata al limite massimo complessivo del termine prescrizionale in caso di eventi interruttivi, ricadendo il delitto nella classe dei reati di cui all’art.
51, co.
3-bis, c.p.p.
ai quali non si applica, ex artt.
160 e 161 c.p., il tetto invalicabile dell’aumento di un quarto del tempo necessario a prescrivere (§.
48). 3.
Immediato e proteiforme l’impatto sulla giurisprudenza interna.
La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, nell’udienza del 15 settembre 2015[3], ha dato un primo e immediato seguito, sostanzialmente avallando l’iter logico-giuridico della Corte di Giustizia: dapprima, ritenendo integrati i requisiti individuati ai fini della disapplicazione delle disposizioni di cui all’art.
160, ultima parte e all’art.
161 c.p.
(la soglia di rilevante gravità delle frodi agli interessi finanziari dell’Unione e la determinazione di una situazione di impunità “in un numero rilevante di casi”); quindi, spendendo anche a livello nazionale, per tacitare i dubbi di legittimità costituzionale, il discutibile argomento della natura processuale della prescrizione, sottratta per tale via alle garanzie del principio di legalità. In senso diametralmente opposto, la Seconda Sezione penale della Corte di Appello di Milano, con ordinanza 18 settembre 2015[4], ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale, sollevando questione di legittimità dell'art.
2 della legge 2 agosto 2008, n.
130, con cui viene ordinata l'esecuzione nell'ordinamento italiano del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea, come modificato dall'art.
2 del Trattato di Lisbona, "nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all'art.
325 §§.
1 e 2 TFUE, dalla quale - nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia (…) - discende l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt.
160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p.
in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l'imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l'art.
25, co.
2, Cost.". Poco dopo, altra Sezione della Cassazione – la Quarta – è tornata sulla questione, ritenendo tuttavia non operante nella fattispecie esaminata l’obbligo di disapplicare gli artt.
160 e 161[5]; a tale prognosi è pervenuta dopo avere vagliato – senza confutarli, ma solo reputandoli insussistenti nel caso di specie - gli aspetti fondamentali del percorso argomentativo delineato dalla Corte di Giustizia, e cioè il requisito della “determinazione della soglia minima di gravità delle frodi in relazioni alle quali andrebbe disapplicata la disciplina nazionale sulla prescrizione” e il diverso atteggiarsi dell'obbligo di disapplicazione a seconda che - al momento della pubblicazione della sentenza Taricco - la prescrizione sia già maturata ovvero ancora pendente[6]. In questo contrasto interpretativo, è nuovamente intervenuta la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione; disattendendo i precedenti arresti, è stata sollevata in due occasioni questione di legittimità costituzionale sempre dell'art.
2 della legge 2 agosto 2008, n.
130, per contrasto, stavolta, non solo con l’art.
25, co.
2, ma anche con gli artt.
3, 11, 27, co.
3, 101, co.
2, Cost.[7]. è stata per questa via sdoganata l’arma dei controlimiti – come è noto a lungo relegata in una sorta di ‘limbo applicativo’ – nei confronti dell'ordinamento europeo, riferendola addirittura alla materia penale e invocando a supporto proprio il principio di legalità rispetto al generale obbligo, per il giudice italiano, di dare applicazione all’art.
325 TFUE. Schematizzando, il principio di legalità in materia penale, il quale implica che le scelte relative al regime della punibilità siano assunte esclusivamente dal legislatore mediante norme sufficientemente determinate e applicabili solo a fatti commessi quando esse erano già in vigore, sarebbe vulnerato, ad avviso dei giudici rimettenti, sotto un duplice punto di vista: a) per l’aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva derivante dalla disapplicazione delle norme relative agli atti interruttivi della prescrizione, concernendo anche le condotte anteriori alla data di pubblicazione della sentenza Taricco; b) per la carenza di una normativa adeguatamente determinata, non essendo chiaro né quando le frodi debbano ritenersi gravi, né quando ricorra un numero considerevole di casi di impunità da imporre la disapplicazione, essendone rimessa la relativa determinazione all’apprezzamento discrezionale del giudice. 4.
Nel corpo della motivazione dell’ordinanza, la Corte costituzionale, riuniti i giudizi, chiarisce subito – anticipando le conclusioni - come il nucleo della questione ruoti attorno a un dubbio di carattere interpretativo sul diritto dell’Unione, che sollecita un ulteriore chiarimento da parte della Corte di Giustizia: occorre in sostanza valutare se quella proposta dai giudici rimettenti sia davvero l’unica possibile declinazione applicativa dell’art.
325 TFUE ovvero sia possibile enucleare “interpretazioni anche in parte differenti, tali da escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale”. Prima di provare a sciogliere i nodi, vengono fissati taluni punti fermi, a mo’ di premessa metodologica: - il “riconoscimento del primato del diritto dell’Unione” quale dato acquisito dalla giurisprudenza costituzionale, a condizione che siano osservati i “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona” (§.2); - la riaffermazione del principio di legalità in materia penale, di cui all’art.
25, co.
2 Cost., quale “principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva” (§.2); - la conferma della natura sostanziale dell’istituto della prescrizione e la conseguente soggezione al principio di legalità in materia penale, dovendo pertanto essere analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto (§.4)[8]. 5.
Scolpite le premesse, dunque, la Corte parte da un primo interrogativo (§.5): può ritenersi il dictum della sentenza Taricco conforme al requisito della determinatezza delle norme di diritto penale sostanziale (principio che “appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto”) e quindi coerente con lo scopo “di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale” e “di impedire l’arbitrio applicativo del giudice”? La verifica si articola su due piani: - da un lato, in nome di un’esigenza che affonda le radici non solo nei principi del diritto penale costituzionale interno, ma anche nell’art.
7 CEDU e nella relativa elaborazione della Corte EDU, su quello della ragionevole prevedibilità, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art.
325 del TFUE come interpretato dalla CGUE nella sentenza Taricco, avrebbe imposto al giudice, in presenza delle condizioni ivi enunciate, la disapplicazione della normativa interna in materia di atti interruttivi della prescrizione; - dall’altro, su quello del rispetto della riserva di legge e del grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art.
325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, “al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”, pena la compromissione del principio della “separazione dei poteri di cui l’art.
25, co.
2 Cost.
declina una versione particolarmente rigida nella materia penale”. In entrambi i casi la prognosi - accompagnata da opportuni chiarimenti in merito ai limiti dell’attività interpretativa (“nell’ordinamento italiano, come anche nell’ordinamento europeo, l’attività giurisdizionale è soggetta al governo della legge penale; mentre quest’ultima, viceversa, non può limitarsi ad assegnare obiettivi di scopo al giudice”) e ai riflessi del deficit di determinatezza anche sui rapporti tra normativa interna e sovranazionale (“non si può allora escludere che la legge nazionale possa e debba essere disapplicata se ciò è prescritto in casi specifici dalla normativa europea.
Non è invece possibile che il diritto dell’Unione fissi un obiettivo di risultato al giudice penale e che, in difetto di una normativa che predefinisca analiticamente casi e condizioni, quest’ultimo sia tenuto a raggiungerlo con qualunque mezzo rinvenuto nell’ordinamento”) - è negativa. Dal primo punto di vista, per la convinzione che nessuno avrebbe potuto ragionevolmente pensare, prima della sentenza Taricco, “che l’art.
325 del TFUE prescrivesse al giudice di non applicare gli artt.
160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p., ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione”. Dal secondo, in quanto la regola enunciata appare inidonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria, giacché “non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di Giustizia”; pur non dubitandosi che “esso si riferisca alla sistematica impunità che il regime legale dell’interruzione della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali, tuttavia il concetto rimane per sua natura ambiguo, e comunque non riempibile di contenuto attraverso l’esercizio della funzione interpretativa”. A questa considerazione si collega la sottolineatura – nella parte conclusiva dell’ordinanza (§.9) - dell’esigenza di parametrare la compatibilità della soluzione offerta nella sentenza Taricco non solo all’art.
49 della Carta di Nizza e al divieto di retroattività, ma anche alla sufficiente determinatezza della norma relativa al regime di punibilità (con la precisazione che tale esigenza andrebbe salvaguardata anche laddove si accedesse a una lettura processuale della prescrizione), dal momento che gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri di civil law “non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire”.
In questa dimensione, si puntualizza, l’art.
325 TFUE, “pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato (…), omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo”, aprendo alla possibilità, per il potere giudiziario, “di disfarsi, in linea potenziale, di qualsivoglia elemento normativo che attiene alla punibilità o al processo, purché esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato”, così eccedendo “il limite proprio della funzione giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno nella tradizione continentale, e non pare conforme al principio di legalità enunciato dall’art.
49 della Carta di Nizza”. 6.
Ravvisata l’incompatibilità tra i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione e quanto riconosciuto dalla sentenza Taricco, la Corte, come detto, anziché trarne la conclusione più immediata (e probabilmente più coerente) e contrapporsi frontalmente, azionando i controlimiti, alla CGUE, opta – in nome del principio di leale collaborazione che definisce i rapporti tra Unione e Stati membri (§.6) – per una soluzione in qualche modo conciliativa, nella convinzione che la Corte di Giustizia non abbia ritenuto che il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola “anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento italiano” (§.6).
Secondo i giudici costituzionali, si sarebbe invece limitata ad affermare l’applicabilità della regola tratta dall’art.
325 del TFUE solo se compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, demandando il vaglio di siffatta compatibilità agli organi nazionali competenti. Aderendo a tale lettura - a supporto della quale sono richiamati i paragrafi 53 e 55 della sentenza Taricco (“se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati”; la disapplicazione va disposta “con riserva di verifica da parte del giudice nazionale” in ordine al rispetto dei diritti degli imputati) - verrebbe a cessare qualsiasi profilo di contrasto e di conseguenza cadrebbero tutti i dubbi di legittimità costituzionale.
Non verrebbe meno l’eventuale responsabilità dello Stato italiano “per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, e in particolare per avere compresso temporalmente l’effetto degli atti interruttivi della prescrizione”, che la Corte accompagna al monito rivolto al legislatore ad intervenire sui termini prescrizionali, per assicurare un efficace repressione delle frodi in questione (fatta salva la verifica sull’efficacia delle recenti modifiche approntate nel settore penale tributario nel 2011, con l’aumento di un terzo dei termini di prescrizione dei reati puniti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs.
n.
74 del 2000). 7.
Nel rinviare alla CGUE, invocando l’esigenza di salvaguardare il “tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art.
4, paragrafo 2, del TUE)”, la Corte costituzionale sottolinea come, attraverso l’interpretazione proposta, verrebbe appunto preservata l’identità costituzionale interna, senza compromettere le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione.
Ad essere messo in discussione, si precisa, non è il significato che la Corte di Giustizia ha rinvenuto nell’art.
325 del TFUE: l’impedimento del giudice nazionale ad applicare direttamente la regola Taricco non deriverebbe infatti “da una interpretazione alternativa del diritto dell’Unione, ma esclusivamente dalla circostanza, in sé estranea all’ambito materiale di applicazione di quest’ultimo, che l’ordinamento italiano attribuisce alla normativa sulla prescrizione il carattere di norma del diritto penale sostanziale e la assoggetta al principio di legalità espresso dall’art.
25, co.
2, Cost.”, rappresentando questa “una qualificazione esterna rispetto al significato proprio dell’art.
325 del TFUE, che non dipende dal diritto europeo ma esclusivamente da quello nazionale” (§.8). Si tratta di una qualificazione fondata – come opportunamente chiarito – sul fatto che “la Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee, perché non è limitato alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma include ogni profilo sostanziale concernente la punibilità” e che offre agli imputati un livello di protezione più elevato rispetto a quello riconosciuto dall’art.
49 della Carta di Nizza e dall’art.
7 della Convenzione EDU, che va pertanto salvaguardato dallo stesso diritto dell’Unione, ai sensi dell’art.
53 della Carta.
Diversamente, si aggiunge, “il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani” (§.
8). Proprio sul carattere ‘esterno’ dell’impedimento all’applicazione diretta della regola Taricco si fonda la distinzione rispetto al caso Melloni, nel quale, come è noto, la stessa CGUE (sentenza 26 febbraio 2013) aveva escluso la possibilità, invocata in nome dei principi costituzionali di uno Stato membro (la Spagna), di aggiungere condizioni all’esecuzione di un mandato di arresto europeo, ulteriori rispetto a quelle pattuite nella Decisione quadro 26 febbraio 2009, n.
2009/299/GAI.
Ebbene, mentre in Melloni una differente soluzione avrebbe comportato “la rottura dell’unità del diritto dell’Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme”, in Taricco non è posto in discussione il primato del diritto dell’Unione, quanto piuttosto – ed esclusivamente - l’esistenza di “un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice”, che “non dipende dalla contrapposizione di una norma nazionale alle regole dell’Unione ma solo dalla circostanza, esterna all’ordinamento europeo, che la prescrizione in Italia appartiene al diritto penale sostanziale, e soggiace perciò al principio di legalità in materia penale” (§.8). 8.
Sugli scenari che la pronuncia della Corte costituzionale schiude vi sarà tempo e modo di tornare con più meditate riflessioni[9]. A primissima lettura, l’alternativa pare secca: o la Corte di Giustizia, facendo tesoro delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale e recependo lo spirito dialogico, decide di fare un passo indietro, sposando, con i dovuti adattamenti ‘eteroindotti’, l’interpretazione correttiva ‘costituzionalmente conforme’ (ma sostanzialmente ‘sterilizzante’) della sentenza Taricco proposta nell’ordinanza in esame (concentrandosi ad esempio sull’indeterminatezza del regime prescrizionale che deriverebbe da un’applicazione pedissequa del suo dictum); oppure prosegue nel suo cammino, accettando il rischio che la Corte costituzionale, dando corpo alle condivisibili rivendicazioni di principio sul ruolo fondante del principio di legalità in materia penale, possa azionare l’arma dei controlimiti (che nell’ordinanza si è ben guardata dal menzionare). [9] Un primo commento in C.
Amalfitano, La vicenda Taricco nuovamente al vaglio della Corte di Giustizia: qualche breve riflessione a caldo, in Eurojus.it, 29 gennaio 2016. La vicenda Taricco nuovamente al vaglio della Corte di giustizia: qualche breve riflessione a caldo 1.
Dopo l’udienza di discussione nei giudizi (riuniti) di legittimità costituzionale (v.
le ordinanze di rimessione qui e qui), tenutasi il 23 novembre 2016, è stata finalmente depositata il 26 gennaio 2017 la attesa pronuncia dei giudici della Consulta. Come si era auspicato in un precedente lavoro, la Corte costituzionale ha deciso, infine, di non affrontare autonomamente la questione dell’operatività dei controlimiti ma, al contrario, di coinvolgere nella soluzione del delicato problema la Corte di giustizia, interprete ultimo del diritto dell’Unione e quindi anche dell’art.
325 TFUE, così come dei suoi precedenti giurisprudenziali.
Non diversamente, beninteso, giudice ultimo del nostro sistema costituzionale e quindi anche dei controlimiti è proprio la Corte che ha effettuato il rinvio pregiudiziale; così che non è possibile escludere che ove la Corte di giustizia, anziché dar seguito in modo proficuo al dialogo instaurato dalla Consulta, rispondesse ai quesiti pregiudiziali in modo da acutizzare il conflitto inter-ordinamentale, i nostri giudici costituzionali potrebbero pervenire comunque ad un’autonoma configurazione del controlimite e ad una finora inedita soluzione del rapporto tra i due ordinamenti.
Scenario, quest’ultimo, che non si vuole neanche prendere davvero in considerazione, con l’auspicio, già espresso nello scritto citato, che la Corte di giustizia cerchi dunque una soluzione che, se anche non perfettamente rispondente alle richieste della Corte costituzionale, sia comunque idonea a soddisfare nella sostanza le esigenze di salvaguardia della nostra identità costituzionale, secondo le specificità (e quindi in tutte le “declinazioni”) delineate nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale. Il compito non sarà semplice, perché la Corte costituzionale, pur dichiarando di rispettare i dicta della pronuncia Taricco, chiede di fatto al giudice del Kirchberg di tornare sui suoi passi, riconoscendo la rilevanza e (quel che più conta) la prevalenza di principi cardine del nostro ordinamento costituzionale rispetto al diritto dell’Unione europea.
E nell’impostazione della Consulta questa soluzione sembrerebbe la sola idonea ad evitare il conflitto e, pertanto, a svuotare di fondamento la questione stessa di legittimità costituzionale di cui è investita che, di conseguenza, potrebbe non essere accolta (pt.
7 dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale). 2.
La scelta della Corte costituzionale è coraggiosa: essa si apre (almeno formalmente) al dialogo, sì, e mostra quindi deferenza alla Corte di giustizia, ma al contempo le pone quesiti molto “netti”, in sostanza chiedendole di riconoscere il controlimite e di legittimarne l’operatività in deroga al principio del primato.
Ciò benché essa cerchi di sostenere la tesi per cui siffatto riconoscimento non implicherebbe alcuna deroga alla primauté, evidenziando le differenze tra il caso in esame e il noto caso Melloni.
Ivi il parametro interpretativo della Corte di giustizia era una normativa armonizzata di diritto dell’Unione (sub specie, i motivi ostativi alla consegna di cui alla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo) che il Tribunale costituzionale spagnolo chiedeva sostanzialmente di integrare sulla base del principio dell’equo processo quale inteso nel proprio ordinamento costituzionale; ma tale possibile integrazione viene negata perché avrebbe implicato, secondo i giudici di Lussemburgo, il blocco del funzionamento del meccanismo di cooperazione previsto dalla decisione quadro, pregiudicando il primato, l’effettività e l’unita del diritto dell’Unione.
I giudici della Consulta affermano invece che, diversamente dal caso Melloni, nel caso sottoposto alla loro attenzione «il primato del diritto dell’Unione non è posto in discussione [...], perché [...] non è in questione la regola enunciata dalla sentenza [...] Taricco, e desunta dall’art.
325 del TFUE, ma solo l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice.
Questo impedimento non dipende dalla contrapposizione di una norma nazionale alle regole dell’Unione ma solo dalla circostanza, esterna all’ordinamento europeo, che la prescrizione in Italia appartiene al diritto penale sostanziale, e soggiace perciò al principio di legalità in materia penale.
Appare perciò proporzionato che l’Unione rispetti il più elevato livello di protezione accordato dalla Costituzione italiana agli imputati, visto che con ciò non viene sacrificato il primato del suo diritto» (pt.
8 dell’ordinanza, corsivi aggiunti). Vero è che si potrebbe sostenere che l’istituto della prescrizione assume rilevanza rispetto al diritto dell’Unione, rectius rispetto all’art.
325 TFUE, di fatto solo dopo la sentenza Taricco e l’approccio funzionalistico che la Corte di giustizia ivi abbraccia al fine di assicurare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Approccio non scontato, così come non prevedibile è stata l’interpretazione data dalla Corte alla disposizione in parola, neppure menzionata, lo si ricorderà, nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Cuneo.
L’affermazione della Consulta per cui il regime della prescrizione “è circostanza esterna all’ordinamento dell’Unione” potrebbe quindi, forse, spiegarsi in virtù di questa sostanziale incompatibilità sopravvenuta (e poco prevedibile) della normativa nazionale sull’allungamento massimo dei termini di prescrizione nella misura in cui essa non garantisca una repressione efficace e dissuasiva dei reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione.
Incompatibilità di tal fatta (sopravvenuta e poco prevedibile, e dunque, a ben vedere, non rispettosa del principio di legalità secondo l’impostazione accolta nel nostro ordinamento) che ben avrebbe giustificato una limitazione nel tempo degli effetti della pronuncia pregiudiziale (v.
§ 6 del lavoro sopra menzionato e infra, nel testo). Tuttavia l’impostazione della Consulta non convince fino in fondo, specie allorché si rifletta sul consolidato orientamento della Corte di giustizia, secondo cui, anche quando il legislatore nazionale opera nell’esercizio di una competenza a lui riservata almeno in linea di principio (come nel caso di specie, trattandosi di definizione della portata dell’istituto della prescrizione), è comunque tenuto al rispetto del diritto dell’Unione (v., per tutte, Cowan, pt.
19; Calfa, pt.
17). Le altre premesse da cui muove la Corte costituzionale sono altrettanto “ferree”.
Non vi è dubbio, innanzitutto, che il principio di legalità in materia penale esprima un principio supremo dell’ordinamento italiano, a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva: se l’applicazione dell’art.
325 TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria al principio di legalità in materia penale, così come testé delineato, la Consulta avrebbe il dovere di impedirlo (pt.
2 dell’ordinanza).
Tuttavia, questa Corte ritiene che la Corte di giustizia, nella sentenza Taricco, non abbia voluto imporre al giudice nazionale di dare applicazione al diritto dell’Unione anche quando ciò implichi un conflitto con un principio cardine dell’ordinamento italiano, ma al contrario che essa abbia affermato che la regola tratta dall’art.
325 TFUE è applicabile solo se è compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, e che spetta alle competenti autorità di tale Stato farsi carico di una siffatta valutazione (pt.
7 dell’ordinanza). 3.
La Consulta chiede così conferma di tali premesse alla Corte di giustizia, perché se la menzionata interpretazione dell’art.
325 TFUE e della sentenza Taricco fosse corretta, cesserebbe, come anticipato, ogni ragione di contrasto e la questione di legittimità costituzionale sarebbe rigettata (ibidem).
Proprio alla luce delle analizzate premesse, sono così formulati i tre quesiti pregiudiziali, con cui si chiede al giudice di Lussemburgo di stabilire se l’art.
325, parr.
1 e 2, TFUE «debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata [e/o] anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità»; nonché, ancora, «se la sentenza [...] Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione [come quella testé descritta], anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro». 4.
Come accennato, pare difficile che la Corte di giustizia sposi la tesi della nostra Corte costituzionale secondo cui la sopra delineata interpretazione dell’art.
325 TFUE e della sentenza Taricco «da un lato serve a preservare l’identità costituzionale della Repubblica italiana, dall’altro non compromette le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione e si propone pertanto come soluzione conforme al principio di leale cooperazione e di proporzionalità» (pt.
8 dell’ordinanza). Sembra comunque possibile che il giudice del Kirchberg, proprio in virtù del principio di leale cooperazione testé richiamato, cerchi una soluzione di “compromesso” che, al pari di quella prospettata dalla Corte costituzionale, preservi tanto l’identità costituzionale del nostro ordinamento quanto il principio del primato.
Tuttavia, per giungere a tale conclusione il ragionamento che la Corte di giustizia potrà seguire sarà presumibilmente diverso da quello svolto dalla Corte costituzionale, data la diversa prospettiva in cui si pone la Corte di giustizia quanto, in primis, ai rapporti tra ordinamenti.
Ciò non significa che, come anticipato, anche tale Corte non possa soddisfare nella sostanza le richieste della Consulta, volte ad assicurare la protezione delle prerogative fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, secondo le specificità sopra brevemente descritte. Un modo per giungere a tale soluzione, eventualmente riformulando parzialmente i quesiti pregiudiziali (secondo la nota tecnica per cui il giudice del rinvio chiede “nella sostanza” di verificare la compatibilità del sistema nazionale rilevante con certe norme di diritto dell’Unione) potrebbe essere quello già esposto nello scritto sopra menzionato (v.
§ 6).
La Corte di giustizia, riconosciuta la rilevanza dell’identità costituzionale italiana per il tramite dell’art.
4, par.
2, TUE, potrebbe configurare il principio di legalità, nell’estensione riconosciutagli dall’ordinamento italiano, quale principio generale di diritto dell’Unione e quindi dare un’interpretazione dell’art.
49 Carta tale da ritenere coperto dal principio di irretroattività della norma penale sfavorevole anche l’istituto della prescrizione, come accade sulla base dell’art.
25, co.
2, Cost.
I valori sottesi al controlimite verrebbero in un certo senso “acquisiti” dal sistema giuridico dell’Unione come principio generale di diritto e valorizzati quale fattore di integrazione dell’ordinamento sovranazionale, nei suoi rapporti con quelli degli Stati membri (come già accaduto, ad esempio, nei casi Omega e Dynamic Medien; su tale funzione dei controlimiti v., amplius, C.
Amalfitano, M.
Condinanzi, Unione europea: fonti, adattamento e rapporti tra ordinamenti, Torino, 2015, p.
176).
Questa nuova lettura dell’art.
49 Carta assicurerebbe anche un innalzamento del livello di tutela fornito dalla Corte di Strasburgo ex art.
7 CEDU al principio di non retroattività della norma penale sfavorevole: innalzamento legittimo ai sensi dell’art.
52, par.
3, Carta. La Corte di giustizia potrebbe certo decidere di ritenere prevalente questo “nuovo” principio generale rispetto all’esigenza di tutela delle finanze dell’Unione, con un bilanciamento dunque tra interesse perseguito dall’art.
325 TFUE e principio di cui all’art.
49 Carta (nella nuova e più lata interpretazione prospettata) risolto a favore di quest’ultimo. Il revirement apparirebbe tuttavia piuttosto netto rispetto alla soluzione data nella pronuncia Taricco.
Non può pertanto escludersi un diverso approccio, anche qui di “compromesso”, per venire incontro alle difficoltà del giudice nazionale nel caso di specie, senza rinunciare ai principi espressi nella sentenza citata.
La Corte di giustizia potrebbe allora decidere di limitare nel tempo gli effetti della propria pronuncia, affermando quindi che la disapplicazione della normativa nazionale nei termini indicati nella Taricco (e nella nuova sentenza meglio specificati per rispettare anche il principio della determinatezza) potrebbe aversi soltanto rispetto ai reati commessi dopo la pronuncia della nuova sentenza pregiudiziale.
Anche se, così disponendo, resterebbe probabilmente un problema ancora da risolvere, per evitare lo scontro con la Consulta.
Ciò perché una consolidata giurisprudenza “comunitaria” vieta che con un nuovo rinvio interpretativo si possano limitare nel tempo gli effetti di una precedente pronuncia pregiudiziale (v., per tutte, Barber, pt.
41; Blaizot, pt.
28.
Per la prospettazione di una possibile diversa soluzione v.
le conclusioni dell’avvocato generale Tizzano nella Meilicke e a., pt.
43 ss.).
Ed una soluzione come quella indicata solo a partire dalla nuova sentenza pregiudiziale perverrebbe a determinare una disparità di trattamento tra gli imputati il cui regime di prescrizione è caduto sotto la scure della sentenza Taricco e quelli che potrebbero invece beneficiare del principio di non retroattività della norma penale sfavorevole in virtù della limitazione degli effetti della sentenza nel tempo. Qualche spunto per giungere ad una soluzione che accolga una diversa e più lata interpretazione dell’art.
49 Carta sembra rinvenibile nella stessa ordinanza di rinvio pregiudiziale, in particolare là dove la Consulta ricorda la diversa portata dell’art.
25, co.
2, Cost.
e dell’art.
49 Carta, almeno nella lettura ad esso data in Taricco: tale indicazione potrebbe infatti anche essere intesa come suggerimento fornito al giudice di Lussemburgo per dare un’interpretazione dell’art.
49 Carta, appunto, e così dell’art.
325 TFUE, tale da escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale quale formulato, appunto, dall’art.
25, co.
2, Cost. 5.
I tempi della decisione della Corte di giustizia dovrebbero essere relativamente brevi (cinque, sei mesi) se verrà accolta, come pare ragionevole che accada, la richiesta di fare applicazione del procedimento accelerato, di cui all’art.
105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia.
Tale richiesta è stata infatti motivata in virtù del «grave stato di incertezza sul significato da attribuire al diritto dell’Unione, incertezza che riguarda processi penali pendenti e che è urgente rimuovere quanto prima.
Non può inoltre sfuggire la prioritaria importanza delle questioni di diritto che sono state sollevate e l’utilità che i relativi dubbi vengano eliminati il prima possibile» (pt.
11 dell’ordinanza). È prevedibile che la formazione giudicante sarà la Grande Sezione, se non altro perché questa era la formazione giudicante del caso Taricco.
Anche se non sarebbe forse sbagliato consegnare la decisione alla formazione plenaria, identificando “l’importanza eccezionale” del caso (v.
art.
16, ult.
co., Statuto CGUE) nell’opportunità che il giudice di Lussemburgo ha di interloquire, per la prima volta in termini così espliciti, sul tema dei controlimiti con una Corte costituzionale nazionale, così da affrontare, dal lato dell’ordinamento dell’Unione, il fondamento, la portata e i limiti di una teoria che è, in potenza, il più rilevante condizionamento giuridico di cui soffre il principio del primato. Rapporti tra Diritto dell’Unione e Diritto italiano, sintesi della giurisprudenza Corte di giustizia Primato funzionale, sentenza Costa Enel del 15 luglio 1964: 3 .
A DIFFERENZA DEI COMUNI TRATTATI INTERNAZIONALI, IL TRATTATO CEE HA ISTITUITO UN PROPRIO ORDINAMENTO GIURIDICO, INTEGRATO NELL' ORDINAMENTO GIURIDICO DEGLI STATI MEMBRI ALL' ATTO DELL' ENTRATA IN VIGORE DEL TRATTATO E CHE I GIUDICI NAZIONALI SONO TENUTI AD OSSERVARE .
ISTITUENDO UNA COMUNITA SENZA LIMITI DI DURATA, DOTATA DI PROPRI ORGANI, DI PERSONALITA, DI CAPACITA GIURIDICA, DI CAPACITA DI RAPPRESENTANZA SUL PIANO INTERNAZIONALE, ED IN ISPECIE DI POTERI EFFETTIVI PROVENIENTI DA UNA LIMITAZIONE DI COMPETENZA O DA UN TRASFERIMENTO DI ATTRIBUZIONI DEGLI STATI ALLA COMUNITA, QUESTI HANNO LIMITATO, SIA PURE IN CAMPI CIRCOSCRITTI, I LORO POTERI SOVRANI E CREATO QUINDI UN COMPLESSO DI DIRITTO VINCOLANTE PER I LORO CITTADINI E PER LORO STESSI .
TALE INTEGRAZIONE NEL DIRITTO DI CIASCUNO STATO MEMBRO DI NORME CHE PROMANANO DA FONTI COMUNITARIE E, PIU IN GENERALE, LO SPIRITO E I TERMINI DEL TRATTATO, HANNO PER COROLLARIO L' IMPOSSIBILITA PER GLI STATI DI FAR PREVALERE, CONTRO UN ORDINAMENTO GIURIDICO DA ESSI ACCETTATO A CONDIZIONE DI RECIPROCITA, UN PROVVEDIMENTO UNILATERALE ULTERIORE, IL QUALE PERTANTO NON E OPPONIBILE ALL' ORDINAMENTO STESSO .
SCATURITO DA UNA FONTE AUTONOMA, IL DIRITTO NATO DAL TRATTATO NON POTREBBE, IN RAGIONE APPUNTO DELLA SUA SPECIFICA NATURA, TROVARE UN LIMITE IN QUALSIASI PROVVEDIMENTO INTERNO SENZA PERDERE IL PROPRIO CARATTERE COMUNITARIO E SENZA CHE NE RISULTASSE SCOSSO IL FONDAMENTO GIURIDICO DELLA STESSA COMUNITA .
IL TRASFERIMENTO, EFFETTUATO DAGLI STATI A FAVORE DELL' ORDINAMENTO GIURIDICO COMUNITARIO, DEI DIRITTI E DEGLI OBBLIGHI CORRISPONDENTI ALLE DISPOSIZIONI DEL TRATTATO IMPLICA QUINDI UNA LIMITAZIONE DEFINITIVA DEI LORO POTERI SOVRANI .
Primato intrinseco : sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978: primato qualitativo (punto 17) oltre che funzionale (punto 20) , il giudice interno deve disapplicare la legge incompatibile 17.
INOLTRE , IN FORZA DEL PRINCIPIO DELLA PREMINENZA DEL DIRITTO COMUNITARIO , LE DISPOSIZIONI DEL TRATTATO E GLI ATTI DELLE ISTITUZIONI , QUALORA SIANO DIRETTAMENTE APPLICABILI , HANNO L ' EFFETTO , NEI LORO RAPPORTI COL DIRITTO INTERNO DEGLI STATI MEMBRI , NON SOLO DI RENDERE ' IPSO JURE ' INAPPLICABILE , PER IL FATTO STESSO DELLA LORO ENTRATA IN VIGORE , QUALSIASI DISPOSIZIONE CONTRASTANTE DELLA LEGISLAZIONE NAZIONALE PREESISTENTE , MA ANCHE - IN QUANTO DETTE DISPOSIZIONI E DETTI ATTI FANNO PARTE INTEGRANTE , CON RANGO SUPERIORE RISPETTO ALLE NORME INTERNE , DELL ' ORDINAMENTO GIURIDICO VIGENTE NEL TERRITORIO DEI SINGOLI STATI MEMBRI - DI IMPEDIRE LA VALIDA FORMAZIONE DI NUOVI ATTI LEGISLATIVI NAZIONALI , NELLA MISURA IN CUI QUESTI FOSSERO INCOMPATIBILI CON NORME COMUNITARIE ; L ' APPLICABILITA DIRETTA VA INTESA NEL SENSO CHE LE NORME DI DIRITTO COMUNITARIO DEVONO ESPLICARE LA PIENEZZA DEI LORO EFFETTI , IN MANIERA UNIFORME IN TUTTI GLI STATI MEMBRI , A PARTIRE DALLA LORO ENTRATA IN VIGORE E PER TUTTA LA DURATA DELLA LORO VALIDITA ; 15DETTE NORME SONO QUINDI FONTE IMMEDIATA DI DIRITTI E DI OBBLIGHI PER TUTTI COLORO CH ' ESSERE RIGUARDANO , SIANO QUESTI GLI STATI MEMBRI OVVERO I SINGOLI , SOGGETTI DI RAPPORTI GIURIDICI DISCIPLINATI DAL DIRITTO COMUNITARIO 20 L ' EFFETTO UTILE DI TALE DISPOSIZIONE VERREBBE RIDOTTO , SE IL GIUDICE NON POTESSE APPLICARE , IMMEDIATAMENTE , IL DIRITTO COMUNITARIO IN MODO CONFORME AD UNA PRONUNZIA O ALLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE ; Prevalenza del diritto comunitario secondario sul diritto interno anche di rango costituzionale: sentenza Melloni del 26 febbraio 2013, punti 59 ss. 59 Secondo una giurisprudenza consolidata, infatti, in virtù del principio del primato del diritto dell’Unione, che è una caratteristica essenziale dell’ordinamento giuridico dell’Unione ( …) il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato … 62 Si deve ricordare peraltro che l’adozione della decisione quadro 2009/299, la quale ha inserito tale disposizione nella decisione quadro 2002/584, mira a rimediare alle difficoltà del riconoscimento reciproco delle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al suo processo, che derivano dall’esistenza, negli Stati membri, di differenze nella tutela dei diritti fondamentali.
A tal fine, tale decisione quadro procede ad un’armonizzazione delle condizioni di esecuzione di un mandato d’arresto europeo in caso di condanna in absentia, che riflette il consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia raggiunte da un mandato d’arresto europeo. 63 Di conseguenza, permettere ad uno Stato membro di valersi dell’articolo 53 della Carta per subordinare la consegna di una persona condannata in absentia alla condizione, non prevista dalla decisione quadro 2009/299, che la sentenza di condanna possa essere oggetto di revisione nello Stato membro emittente, al fine di evitare una lesione del diritto ad un processo equo e dei diritti della difesa garantiti dalla Costituzione dello Stato membro di esecuzione, comporterebbe, rimettendo in discussione l’uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali definito da tale decisione quadro, una lesione dei principi di fiducia e riconoscimento reciproci che essa mira a rafforzare e, pertanto, un pregiudizio per l’effettività della suddetta decisione quadro. Commenti alla sentenza Melloni Nota a sentenza CGUE, Grande sezione, 26 febbraio 2013, causa C-399/11, Melloni 1.
I fatti all’origine della sentenza Il sig.
Melloni veniva indagato in Italia per il delitto di bancarotta fraudolenta.
Trasferitosi in Spagna, a seguito della richiesta della magistratura italiana ne veniva concessa l’estradizione da parte delle autorità spagnole perché questi potesse esseregiudicato presso il Tribunale di Ferrara.
Tuttavia egli, rilasciato su cauzione in Spagna, si dava alla fuga.
Il processo intanto in Italia seguiva il suo corso ed il Tribunale di Ferrara rilevava la mancata comparizione del sig.
Melloni autorizzando l’esecuzione delle notifiche presso i difensori di fiducia da lui nominati.
Veniva quindi, all’esito del processo, condannato in contumacia alla pena di dieci anni di reclusione, sentenza confermata dalla Cassazione nel 2004. Il procuratore generale presso la Corte d’appello di Bologna spiccava quindi un nuovo mandato di arresto europeo al fine dell’esecuzione della sentenza di condanna.
Arrestato nel 2008 dalle autorità spagnole gli atti venivano trasmessi alla prima sezione della camera penale della Audiencia National. Il sig.
Melloni si opponeva alla consegna alle autorità italiane lamentando anzitutto di aver conferito in appello mandato ad un avvocato diverso da quelli del primo grado, revocando i mandati precedenti ma che tuttavia le notifiche avevano continuato ad essere eseguite presso i difensori originari.
Adduceva altresì la circostanza che il diritto processuale italiano non consentisse di impugnare le sentenze pronunciate in absentia e che quindi l’esecuzione avrebbe dovuto essere subordinata dalle autorità spagnole alla circostanza che venisse consentito all’imputato di impugnare la sentenza di condanna. L’Audiencia National rigettava le doglianze ritenendo indimostrata la revoca dei difensori e valutando rispettato il diritto di difesa in considerazione del fatto che i due avvocati, nominati di fiducia, avevano ricevuto tutte le notifiche e avevano partecipato all’intero processo. Il sig.
Melloni proponeva quindi ricorso avanti all’organo costituzionale spagnolo lamentando la violazione del diritto ad un processo equo così come sancito dall’art.
24 comma 2 della costituzione spagnola.
Ad avviso del ricorrente infatti la consegna a Stati che, per reati con pena elevata, non prevedono la revisione del processo per il caso di processi celebrati in absentia, lederebbe il principio sancito dalla carta costituzionale spagnola. 2.
La valutazione del giudice costituzionale spagnolo Il giudice del rinvio, nel sollevare la questione, osserva come in effetti, anche guardando ai propri precedenti giurisprudenziali, la consegna della persona verso paesi che non prevedono forme di ricorso per processi celebrati in absentia costituisca una violazione del diritto ad un equo processo garantito dalla propria Carta costituzionale. Rileva tuttavia che la Decisione Quadro n.
2009/299 ha introdotto il nuovo art.
4 bis che pone un principio antitetico rispetto a quello garantito dalla Carta costituzionale.
Tale disposizione infatti impedirebbe di “rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà se l’interessato non è comparso personalmente al processo terminato con la decisione” quando l’interessato “essendo al corrente della data fissata, aveva conferito un mandato ad un difensore, nominato dall’interessato o dallo Stato, per patrocinarlo in giudizio, ed è stato in effetti patrocinato in giudizio da tale difensore”. Posta tale premessa, il giudice delle leggi spagnolo si interroga se l’art.
4 bis vieti alle autorità giudiziarie di subordinare l’esecuzione di un mandato di arresto alla condizione che la sentenza di condanna possa essere riesaminata al fine di garantire i diritti dell’interessato.
Inoltre, qualora al primo quesito debba essere data risposta affermativa, si domanda se ciò sia conforme agli artt.
47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali.
Da ultimo, qualora sia data soluzione positiva, si chiede se l’art.
53 della Carta,prescrivendo che il diritto dell’Unione non debba limitare eventuali disposizioni maggiormente favorevoli poste a tutela dei diritti fondamentali dalle Carte costituzionali degli Stati membri, consenta di porre comunque al mandato d’arresto europeo in questione la condizione della possibilità di revisione del processo celebrato in absentiaallo Stato richiedente. 3.
La soluzione della Corte di Giustizia: il primato del diritto europeo. La questione in analisi è di grande rilevanza in quanto chiede alla Corte di vertice del sistema europeo di giudicare la legittimità di disposizioni contenute nelle Grundnormen degli Stati membri che tutelino maggiormente i diritti fondamentali dell’individuo rispetto a quanto statuito dal diritto dell’UE, ma che al contempo siano in contrasto con lo stesso. La Corte risponde analiticamente ai tre quesiti.
Quanto al primo, osserva anzitutto che il fine dell’articolo 4 bis è stato quello di facilitare la cooperazione giudiziaria in materia penale, migliorando il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie tra gli Stati membri attraverso un’armonizzazione dei motivi di non riconoscimento delle decisioni pronunciate al termine di un processo celebrato in contumacia.
Le misure contenute in tale disposizioni sono state quindi stabilite per eseguire comunque la decisione, pur rispettando le esigenze di difesa e pertanto la norma in questione vieta che l’autorità che deve consegnare il soggetto possa subordinare tale consegna alla celebrazione della revisione del processo avvenuto in absentia. Risolta la prima questione, i giudici affrontano la successiva evidenziando che, sebbene il diritto dell’imputato a comparire sia un elemento essenziale del diritto ad un equo processo, esso non può ascriversi alla categoria dei diritti assoluti.
L’imputato può infatti rinunciarvi sia in modo esplicito che tacito.
In particolare, argomentano imagistrati, l’interpretazione dell’art.
6 Cedu, par.
1 e 3 fatta propria dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che deve ritenersi parte integrante degli articoli 47 e 48 della Carta avendo tali articoli la medesima portata della disposizione convenzionale ed essendo ciò espressamente disposto dal preambolo della Carta stessa, esplicitamente si sostiene che non sussista violazione del diritto ad un equo processo nei casi in cui il soggetto sia stato informato relativamente alla data ed al luogo di celebrazione del processo ovvero sia stato assistito da un difensore nominato di fiducia. La previsione di cui all’art.
4 bis, che prevede l’impossibilità di subordinare l’estradizione della persona richiesta all’esecuzione di un nuovo processo, tra l’altro, qualora questi abbia scelto di farsi rappresentare da un difensore da lui nominato, non può pertanto ritenersi contrastante con le disposizioni di cui agli artt.
47 e 48 della Carta. I giudici europei affrontano infine l’ultima e certamente più delicata questione ritenendo di non poter accogliere neanche tale doglianza, la quale se recepita avrebbe consentito comunque alle autorità spagnole di poter subordinare la consegna alla celebrazione di un nuovo processo in Italia.
Il fondamento di tale asserto risiede nel principio del primato del diritto dell’Unione che verrebbe minato nelle sue stesse fondamenta qualora fosse concessa la possibilità ad uno Stato di subordinare l’estradizione al rispetto di diritti fondamentali previsti in maniera differente ancorché maggiormente favorevoli all’interessato, dalle proprie Costituzioni nazionali. Richiamandosi alla propria precedente giurisprudenza infatti, la Corte sottolinea il principio che “il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato”. La possibilità di opporsi alla consegna nelle forme stabilite dalla decisione quadro in ragione dei propri principi costituzionali comporterebbe quindi una lesione dei principi di fiducia e riconoscimento reciproci che la decisione quadro mira a rafforzare, creando un rilevante pregiudizio per l’effettività della stessa. La rilevante sentenza sembra segnare un’inversione di tendenza per l’Italia, la cui disciplina in tema di processo contumaciale è stata a più riprese oggetto di condanne in sede europea.
Nel caso di specie, tuttavia, la circostanza che l’imputato avesse nominato i propri legali è risultata essere fondamentale al fine del giudizio della compatibilità con il quadro europeo della disciplina italiana, in ragione della necessità, ritenuta essenziale anche a livello sovranazionale, che le garanzie europee statuite a tutela dell’equo processo non si traducano in una paralisi per gli organi giudiziari nazionali. 22 marzo 2013 OBBLIGHI DI ADEGUAMENTO AL DIRITTO UE E 'CONTROLIMITI': LA CORTE COSTITUZIONALE SPAGNOLA SI ADEGUA, BON GRÉ MAL GRÉ, ALLA SENTENZA DEI GIUDICI DI LUSSEMBURGO NEL CASO MELLONI Tribunal Constitucional de España, sent.
13 febbraio 2014, recurso de amparo 6922/2008, Melloni Per scaricare la sentenza del Tribunal Consitucional spagnolo e le allegate opinioni concorrenti qui presentate, clicca su visualizza allegato. 1.
Sentenza di grande rilievo per tutto lo spazio giuridico europeo, quella pronunciata dal Tribunal Constitucional spagnolo nel caso Melloni: il primo caso nel quale una Corte costituzionale nazionale ha sottoposto alla Corte di giustizia dell'UE una questione che concerne direttamente la potestà degli Stati membri di far valere 'controlimiti', in materia di tutela dei diritti fondamentali, rispetto agli obblighi di adeguamento dell'ordinamento nazionale al diritto UE. Come ricorderanno i lettori più attenti al tema delle interazioni tra diritto interno e diritto UE, la risposta dei giudici di Lussemburgo era stata tranchante: nella misura in cui il diritto UE rispetta i diritti fondamentali tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali dell'UE (di seguito: CDFUE), lo Stato membro non può rifiutare di adempiere gli obblighi che ne derivano, nemmeno nell'ipotesi in cui tali obblighi risultino in contrasto con i diritti fondamentali garantiti dal proprio ordinamento costituzionale (cfr.
Corte di giustizia UE, sent.
26 febbraio 2013, C- 399/11, Melloni, sulla quale cfr.
i contributi di S.
Manacorda, Dalle carte dei diritti a un diritto penale à la carte, in questa Rivista, 17 maggio 2013; S.
Lo Forte-S.
Civello Conigliaro, Cooperazione giudiziaria in materia penale e tutela dei diritti fondamentali nell'Unione europea, ibidem, 3 giugno 2013; G.
De Amicis, All'incrocio tra diritti fondamentali, mandato d’arresto europeo e decisioni contumaciali: la Corte di Giustizia e il caso Melloni, ibidem, 7 giugno 2013; C.
Amalfitano, Mandato d'arresto europeo: reciproco riconoscimento vs diritti fondamentali?, ibidem, 4 luglio 2013). La Corte costituzionale spagnola si adegua ora - seppur, come diremo, senza ammetterlo chiaramente, e riservandosi comunque la possibilità di far valere 'controlimiti' in futuro - alla decisione dei giudici di Lussemburgo, almeno con riferimento al caso di specie che aveva dato luogo al rinvio pregiudiziale. 2.
Per una migliore intelligenza di questa sentenza, conviene sinteticamente ripercorrere la vicenda giudiziaria appena conclusasi. Il cittadino italiano Stefano Melloni, residente in Spagna, veniva processato in contumacia in Italia per il delitto di bancarotta fraudolenta, e veniva quindi condannato alla pena di dieci anni di reclusione con sentenza del tribunale di Ferrara del 21 giugno 2000, successivamente confermata dalla Corte d'appello e divenuta definitiva nel 2004.
Durante l'intero iter processuale Melloni era stato rappresentato da propri avvocati di fiducia, ai quali erano state effettuate tutte le notifiche di rito.
In seguito al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, le autorità giudiziarie emettevano mandato di arresto di europeo, effettivamente eseguito dalla polizia spagnola nell'agosto 2008.
Il 12 settembre del medesimo anno, la Audiencia Nacional di Madrid ordinava la consegna di Melloni per l'esecuzione della sentenza. Contro tale provvedimento Melloni proponeva recurso de amparo al Tribunal Constitucional, lamentando la lesione del diritto ad un processo equo garantito dall'art.
24, secondo comma, della Costituzione spagnola.
Più in particolare, il ricorrente invocava due sentenze del Tribunal, pronunciate rispettivamente nel 2000 e nel 2006, con le quali i giudici costituzionali spagnoli avevano affermato che - tanto nell'ambito di comuni procedimenti di estradizione, quanto di procedimenti di esecuzione di mandati di arresto europei - la consegna ad altri Stati di persone condannate in contumacia viola il diritto di difesa riconosciuto dalla Costituzione spagnola, a meno che lo Stato richiedente assicuri una possibilità di revisione della sentenza, a richiesta del condannato.
Nel caso di specie, appariva evidente che una tale possibilità non vi sarebbe stata nell'ordinamento italiano, l'art.
175 c.p.p.
non consentendo la rimessione in termini di un contumace che, come Melloni, era stato regolarmente informato del processo a proprio carico, e aveva esercitato il proprio diritto di difesa tramite i propri avvocati di fiducia. Con ordinanza in data 9 giugno 2011, il Tribunal constitucional decideva di sospendere il procedimento e di formulare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ex art.
267 TFUE, su tre distinte questioni, che vale qui la pena di rammentare analiticamente. Con la prima questione (di interpretazione), il Tribunal chiedeva in sostanza se la decisione quadro sul mandato di arresto impedisca alle autorità giudiziarie nazionale di subordinare la consegna di una persona condannata alla condizione che lo Stato richiedente garantisca in ogni caso la possibilità di una revisione del processo, secondo quanto stabilito dalla precedente giurisprudenza dello stesso Tribunal. Con la seconda questione (di validità), il Tribunal si interrogava se - nel caso di risposta affermativa al primo quesito - la decisione quadro fosse compatibile con i diritti a un processo equo e a una difesa giurisdizionale garantiti dagli articoli 47 e 48 CDFUE. Infine, con la terza questione (di interpretazione), il Tribunal poneva alla Corte l'interrogativo cruciale se l'art.
53 CDFUE (che come è nota recita: "Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti [...] dalle costituzioni degli Stati membri") consenta allo Stato membro di rifiutare l'esecuzione di un mandato di arresto europeo nei confronti di un condannato contumace nel caso in cui lo Stato richiedente non garantisca in ogni caso la riapertura del processo, e consenta così allo Stato membro di assicurare ai diritti di cui ai citati artt.
47 e 48 CDFUE un livello di protezione più elevato nell'ordinamento interno rispetto a quello assicurato a livello europeo. 3.
Con sentenza della Grande Sezione pronunciata il 26 febbraio 2013, la Corte di giustizia rispondeva: - quanto alla prima questione, che la decisione quadro sul mandato di arresto osta, effettivamente, alla possibilità per lo Stato membro di subordinare la consegna del condannato alla condizione che lo Stato richiedente garantisca la riapertura del processo, anche nell'ipotesi in cui il condannato abbia avuto conoscenza del processo e abbia volontariamente rinunciato a difendersi; - quanto alla seconda questione, che la decisione quadro - così interpretata - è compatibile con i diritti fondamentali di cui agli artt.
47 e 48 CDFUE, che - nell'estensione loro attribuita nello spazio giuridico europeo, sulla base in particolare della giurisprudenza rilevante della Corte di Strasburgo, ai cui standard si attiene la stessa decisione quadro - non ostano alla possibilità che un processo penale venga celebrato in contumacia, allorché l'imputato, debitamente informato del processo, rinunci volontariamente a partecipare in prima persona al processo; - quanto alla terza e decisiva questione, che l'art.
53 CDFUE non consente allo Stato membro di rifiutare l'esecuzione degli obblighi discendenti dalla decisione quadro per evitare di violare il diritto a un processo equo, così come definito dal proprio ordinamento interno che - in ipotesi - garantisca a tale diritto un maggior livello di tutela rispetto a quello riconosciuto in sede europea. In parole più semplici, questo il messaggio della Corte di giustizia: la Spagna non può legittimamente rifiutarsi di eseguire i propri obblighi europei, adducendo che tale esecuzione comporterebbe a sua volta la violazione dei diritti fondamentali del signor Melloni, così come riconosciuti nell'ordinamento spagnolo.
L'eventuale apposizione di un 'controlimite', derivante dall'esigenza di preservare il maggior livello di tutela dei diritti a un processo equo garantito dall'ordinamento spagnolo risulterebbe, dunque, in aperto contrasto con il diritto UE, così come autoritativamente interpretato dalla Corte di giustizia. Più chiari di così si muore, potremmo dire.
E, certo, una simile sentenza - paragonabile a un sonoro pugno sul tavolo da parte dei giudici europei - spalancava ai giudici costituzionali di Madrid, che pure avevano avuto la cortesia istituzionale di porre la questione alla Corte di giustizia prima di azionare direttamente i 'controlimiti', un'alternativa imbarazzante: piegarsi al volere dei loro colleghi europei, rinunciando tout court all'idea dei 'controlimiti' a tutela dei propri diritti fondamentali, id est, dei diritti fondamentali nell'estensione loro attribuita dalla Costituzione nazionale; oppure rispondere anch'essi con un pugno sul tavolo, e proclamare la supremazia delle ragioni di tutela dei propri diritti fondamentali sul diritto UE, innescando così un aperto conflitto con la Corte di giustizia. 4.
Con la decisione ora pubblicata, il Tribunal Constitucional riafferma con forza l'esistenza di invalicabili 'controlimiti' alla cessione di sovranità in favore dell'Unione europea, fondata sull'art.
93 della Costituzione spagnola: controlimiti che non si ricavano dal testo di tale disposizione costituzionale, ma che il medesimo Tribunal ha identificato, nella sentenza n.
1/2004, nel rispetto della sovranità dello Stato, delle sue essenziali strutture costituzionali e del sistema di valori e principi fondamentali consacrati nella Costituzione, tra i quali assumono un rango eminente i dritti fondamentali.
Spetta, invero, in prima battuta alla Corte di giustizia - a ciò sollecitata, tra l'altro, a mezzo del rinvio pregiudiziale di validità - assicurare che il diritto derivato dell'Unione rispetti i diritti fondamentali stabiliti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, e consacrati nella CDFUE; ma, quanto meno in ultima istanza, non può non spettare al Tribunal Constitucional il compito di assicurare la supremazia dei valori fondamentali della Costituzione spagnola, nel caso di contrasto insanabile tra questi ultimi e il diritto dell'Unione (§ 3 dei "fondamentos jurídicos"). Nonostante tale (minacciosa) premessa, il Tribunal si guarda però bene, nel caso concreto, dal far valere questi controlimiti.
Nel caso di specie - osservano i giudici - ciò di cui si discute è una mera possibile violazione indiretta del diritto ad un processo equo garantito dall'art.
24 della Costituzione spagnola, derivante dalla consegna di una persona a una giurisdizione straniera la quale potrebbe, in ipotesi, rendersi essa stessa responsabile della violazione di tale diritto.
In simili casi, argomenta il Tribunal, l'estensione della tutela al diritto in questione può essere più ridotta di quella che deve essere assicurata all'interno della giurisdizione spagnola, non dovendo necessariamente abbracciare tutte le garanzie che la giurisprudenza costituzionale spagnola deduce dall'art.
24, bensì soltanto un nucleo di garanzie elementari che costituiscono l'essenza stessa del "giusto processo", secondo un'accezione diffusa in tutte le tradizioni costituzionali europee.
Nella determinazione dell'estensione di questo nucleo minimo (o "contenuto assoluto") del diritto ad un processo equo, un ruolo essenziale deve essere riconosciuto ai trattati internazionali in materia di diritti umani, in particolare alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), così come interpretate dalle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo. Sulla base appunto della (coincidente) giurisprudenza delle due Corti, il Tribunal constitucional afferma allora che il nucleo minimo, assoluto, ad un processo equo implica - invero - in linea generale il diritto di chi sia stato condannato in contumacia ad ottenere che un tribunale si pronunci nuovamente sul merito dopo aver udito l'imputato, a meno che - però - l'imputato stesso, debitamente informato della pendenza del processo a proprio carico, abbia rinunciato volontariamente a comparire in giudizio, facendosi rappresentare e difendere da un avvocato di propria fiducia. Una tale constatazione induce dunque il Tribunal constitucional a modificare la propria precedente giurisprudenza, e a negare che - in caso di consegna di una persona condannata in contumacia a una giurisdizione straniera - le ragioni di tutela del diritto a un processo equo sancito dall'art.
24, secondo comma, della Costituzione spagnola impongano di rifiutare la consegna, qualora le autorità giurisdizionali straniere in questione non garantiscano comunque la possibilità di revisione della sentenza, anche nell'ipotesi in cui il condannato fosse debitamente informato del processo e si fosse fatto difendere da un avvocato di fiducia. Il ricorso di amparo promosso a suo tempo da Stefano Melloni contro la decisione di consegna alle autorità italiane emessa a suo tempo dall'Audiencia Nacional viene, conseguentemente, respinto. 5.
Con questa decisione, dunque, il Tribunal constitucional evita di azionare i 'controlimiti', pur riaffermandone solennemente l'esistenza in linea di principio; ed opta, piuttosto, per la via dell'overruling della propria precedente giurisprudenza, individuando per la prima volta un diverso standard di tutela del diritto costituzionale al processo equo, a seconda che il diritto debba essere fatto valere all'interno della giurisdizione spagnola, ovvero in relazione a possibili violazione da parte di altre giurisdizioni alle quali una persona sia consegnata: massima espansione della garanzia nel primo caso, tutela di un solo nucleo minimo (o 'assoluto') nel secondo caso. La distinzione ha, invero, una sua plausibilità: nel momento in cui un ordinamento decide di prestare assistenza giudiziaria ad altri ordinamenti, non può pretendere che il sistema processuale di questi ultimi sia in tutto e per tutto conforme ai propri standard di un 'processo equo', così come elaborati dalla propria giurisprudenza costituzionale; ma deve ragionevolmente accontentarsi della prospettiva che gli ordinamenti cui presta assistenza rispettino un nucleo minimo di garanzie processuali, riconosciute dalla comunità internazionale come coessenziali all'idea di un processo equo.
Le specifiche tradizioni costituzionali di uno Stato possono, ad es., considerare come inammissibile l'idea stessa di un giudizio contumaciale, o di un processo penale in cui sia il giudice e non la giuria a pronunciare il verdetto sulla colpevolezza dell'imputato; tuttavia, sarebbe certamente eccessivo voler rifiutare ogni cooperazione con ordinamenti che non condividano questi assunti, ma che comunque rispettino nel loro complesso le garanzie che a livello internazionale connotano l'idea del fair trial. Non può negarsi peraltro che i giudici costituzionali spagnoli abbiano, con questa sentenza, abbassato il proprio precedente standard di tutela del diritto fondamentale in gioco, adeguandolo al livello riconosciuto in sede europea, in modo da non creare ostacoli al reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia di mandato di arresto europeo. Ma a tale risultato il Tribunal perviene senza riconoscere di essere vincolato dalla sentenza della Corte di giustizia, sentenza che - anzi - apparentemente non gioca alcun ruolo nell'iter motivazionale che conduce alla revisione della precedente (e costante) giurisprudenza costituzionale; il revirement è, piuttosto, presentato come uno spontaneo ripensamento sull'opportunità di distinguere tra due distinti livelli di tutela del medesimo diritto a un processo equo, a seconda che tale diritto venga in considerazione all'interno dell'ordinamento spagnolo ovvero in conseguenza della consegna di una persona a un diverso ordinamento. Come dire: ci adeguiamo, ma non perché ce lo dite voi.
Siamo noi che ci abbiamo, liberamente, ripensato. 6.
Proprio su questo profilo si appuntano le dure critiche formulate contro la sentenza, in particolare, dalle giudici Asua Batarrita e Roca Tría nelle rispettive opinioni concorrenti. Il contrasto non concerne, beninteso, la soluzione concreta - il rigetto del ricorso di amparo nel caso di specie -, sulla quale il Tribunal è unanime; bensì l'iter argomentativo, che per l'appunto trascura il principio della primazia del diritto dell'Unione, all'interno del proprio ambito di applicazione, sul diritto nazionale. Secondo le due opinioni concorrenti in parola, la maggioranza avrebbe dovuto semplicemente adeguarsi alla sentenza dei giudici di Lussemburgo sulla base di tale principio cardine del diritto UE, che il Tribunal Constitucional aveva del resto implicitamente riconosciuto nel momento in cui aveva formulato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; e avrebbe dovuto, così, riconoscere che in materia di mandato di arresto europeo, il livello di tutela del diritto fondamentale a un processo equo è unicamente quello stabilito a livello europeo dagli artt.
47 e 48 CDFUE, così come interpretati dalla Corte di giustizia e dalla corrispondente giurisprudenza di Strasburgo in materia di art.
6 CEDU: e non quello, eventualmente superiore, derivante dall'art.
24 della Costituzione spagnola.
E ciò proprio in ossequio a quanto stabilito, nella risposta alla terza questione pregiudiziale postale dal Tribunal, dalla stessa Corte di giustizia, la quale aveva nettamente escluso che, nelle materie rientranti nell'ambito di attuazione del diritto dell'Unione, lo Stato membro possa opporre ostacoli al diritto dell'Unione e al suo 'effetto utile' in nome dell'esigenza di garantire un livello più elevato di tutela di un diritto fondamentale rispetto a quella assicuratogli nell'ordinamento dell'Unione. Del tutto equivoco appare dunque - ad avviso delle due giudici - lo sforzo di presentare il revirement operato dal Tribunal come il frutto di un autonomo ripensamento della propria giurisprudenza in materia di art.
24 della Costituzione spagnola, piuttosto che come una conseguenza obbligata delle risposte fornite allo stesso Tribunal dalla Corte di giustizia: giacché nelle materie abbracciate dal diritto dell'Unione, i diritti fondamentali sono protetti nell'estensione e nei limiti loro riconosciuti dal diritto dell'Unione, che ha primazia sul diritto nazionale - e persino sul diritto costituzionale nazionale, salva la teorica possibilità per il Tribunal di azionare i 'controlimiti' alla cessione di sovranità realizzata in favore dell'Unione.
Possibilità, quest'ultima, che le opinioni dissenzienti in parola non contestano, ma la cui espressa sottolineatura nel contesto della sentenza ritengono del tutto inopportuna, anche per il suo evidente carattere di obiter in una decisione che, in ultima analisi, esclude qualsiasi profilo di contrasto tra la soluzione imposta dall'Unione e la Costituzione spagnola. Così come ogni altro giudice spagnolo, dunque, il Tribunal Constitucional avrebbe dovuto applicare gli standard europei di tutela fondati sulla Carta (e, mediatamente, sulla CEDU) nel decidere un ricorso in materia di mandato di arresto.
E ciò in quanto, come osserva la giudice Roca Trías, tutti i giudici nazionali, senza alcuna eccezione, sono al tempo stesso giudici europei, quando si tratta di dare attuazione al diritto dell'Unione.
Erra pertanto la maggioranza, allorché pretende di applicare al mandato di arresto europeo uno standard puramente interno di tutela del diritto fondamentale a un processo equo, sia pure arricchito in via ermeneutica delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza delle Corti europee: questo standard nazionale non dovrebbe, in realtà, giocare qui alcun ruolo, secondo le indicazioni inequivoche della Corte di giustizia. D'altra parte - e su questo profilo convergono anche le osservazioni della terza opinione concorrente, a firma del giudice Ollero Tassara - la ridefinizione di un nuovo (e più basso) standard di tutela del diritto di cui all'art.
24 della Costituzione spagnola applicabile a tutti i casi di 'violazione indiretta' (e dunque non solo ai casi di mandato di arresto europeo, ma anche ai casi ordinari di estradizione verso Paesi non membri dell'Unione europea) non era affatto imposta dalla sentenza della Corte di giustizia, e potrebbe rivelarsi in futuro inadeguata rispetto a Paesi che non condividono il comune impegno al rispetto dei diritti fondamentali che caratterizza la specifica comunità di Stati che compone l'Unione europea: nei confronti dei quali soltanto ha senso - secondo i tre giudici di minoranza - adeguare il livello di tutela dei diritti fondamentali a standard comuni da tutti accettati, anche correndo il rischio di abbassare i livelli già garantiti nelle materie di rilievo puramente interno, in nome dell'esigenza di assicurare effettività - "effet utile" - al diritto dell'Unione. 7.
Una decisione assai sofferta, quella del Tribunal Constitucional che qui ho cercato di riassumere, e che certamente farà discutere nell'intero spazio giuridico europeo in relazione alla questione di fondo del possibile effetto 'al ribasso' della tutela 'centralizzata' dei diritti fondamentali assicurata dalla Carta nell'ambito di attuazione del diritto dell'Unione: una questione, d'altra parte, strettamente intrecciata con quella dei 'controlimiti' alle cessioni di sovranità effettuate dai singoli Stati membri nei confronti dell'Unione, sulla quale parimenti molto si dovrà ancora riflettere nel prossimo futuro. Accettazione di controlimiti (sentenza M.A.S.
del 5 dicembre 2017, così detta Taricco II) Punto 36.
Deve pertanto ritenersi che gli Stati membri violino gli obblighi loro imposti dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE qualora le sanzioni penali adottate per reprimere le frodi gravi in materia di IVA non consentano di garantire efficacemente la riscossione integrale di detta imposta.
A tale titolo, detti Stati devono altresì assicurarsi che le norme sulla prescrizione previste dal diritto nazionale consentano una repressione effettiva dei reati legati a frodi siffatte (Taricco ) Però 48.
In particolare, per quanto riguarda l’inflizione di sanzioni penali, spetta ai giudici nazionali competenti assicurarsi che i diritti degli imputati derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene siano garantiti. 49 Orbene, secondo il giudice del rinvio, tali diritti non sarebbero rispettati in caso di disapplicazione delle disposizioni del codice penale in questione, nell’ambito dei procedimenti principali, dato che, da un lato, gli interessati non potevano ragionevolmente prevedere, prima della pronuncia della sentenza Taricco, che l’articolo 325 TFUE avrebbe imposto al giudice nazionale, alle condizioni stabilite in detta sentenza, di disapplicare le suddette disposizioni. A tale riguardo, si deve ricordare l’importanza, tanto nell’ordinamento giuridico dell’Unione quanto negli ordinamenti giuridici nazionali, che riveste il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile. 52 Tale principio, quale sancito all’articolo 49 della Carta, si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione, conformemente all’articolo 51, paragrafo 1, della medesima, come avviene allorché essi prevedano, nell’ambito degli obblighi loro imposti dall’articolo 325 TFUE, di infliggere sanzioni penali per i reati in materia di IVA.
L’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione non può quindi contrastare con tale principio (v …) . 53 Inoltre, il principio di legalità dei reati e delle pene appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed è stato sancito da vari trattati internazionali, segnatamente all’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU (…) Dall’altro, i requisiti menzionati al punto 58 della presente sentenza ostano a che, in procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia della sentenza Taricco, il giudice nazionale disapplichi le disposizioni del codice penale in questione.
Infatti, la Corte ha già sottolineato, al punto 53 di tale sentenza, che a dette persone potrebbero, a causa della disapplicazione di queste disposizioni, essere inflitte sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggite se le suddette disposizioni fossero state applicate.
Tali persone potrebbero quindi essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato. 61 Se il giudice nazionale dovesse quindi essere indotto a ritenere che l’obbligo di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, esso non sarebbe tenuto a conformarsi a tale obbligo, e ciò neppure qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione (v., per analogia, sentenza del 10 luglio 2014, Impresa Pizzarotti, C 213/13, EU:C:2014:2067, punti 58 e 59).
Spetta allora al legislatore nazionale adottare le misure necessarie, come rilevato ai punti 41 e 42 della presente sentenza. 62 Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alle questioni prima e seconda dichiarando che l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato. Corte costituzionale italiana. 2 questioni 1) Diritto comunitario direttamente applicabile e legge italiana successiva incompatibile Equiparazione dei regolamenti alle leggi, principio di successione delle norme nel tempo, sentenza Costa ENEL del 7 marzo 1964: L'art.
11 viene qui in considerazione per la parte nella quale si enuncia che l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. La norma significa che, quando ricorrano certi presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinana; ma ciò non importa alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine alla efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri Stati, non avendo l'art.
11 conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il trattato, un'efficacia superiore a quella propria di tale fonte di diritto. Non vale, infine, l'altro argomento secondo cui lo Stato, una volta che abbia fatto adesione a limitazioni della propria sovranità, ove volesse riprendere la sua libertà d'azione, non potrebbe evitare che la legge, con cui tale atteggiamento si concreta, incorra nel vizio di incostituzionalità.
Contro tale tesi stanno le considerazioni ora esposte, le quali conducono a ritenere che la violazione del trattato, se importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge con esso in contrasto la sua piena efficacia. Nessun dubbio che lo Stato debba fare onore agli impegni assunti e nessun dubbio che il trattato spieghi l'efficacia ad esso conferita dalla legge di esecuzione.
Ma poiché deve rimanere saldo l'impero delle leggi posteriori a quest'ultima, secondo i principi della successione delle leggi nel tempo, ne consegue che ogni ipotesi di conflitto fra l'una e le altre non può dar luogo a questioni di costituzionalità. Da tutto quanto precede si trae la conclusione che, ai fini del decidere, non giova occuparsi del carattere della Comunità economica europea e delle conseguenze che derivano dalla legge di esecuzione del Trattato istitutivo di essa, né occorre indagare se con la legge denunziata siano stati violati gli obblighi assunti con il Trattato predetto Incostituzionalità per violazione indiretta dell’art.
11 Cost., il giudice non può disapplicare la legge sentenza ICIC del 22 ottobre 1975 (232/75) 4.
- Ai fini della decisione sembra anzitutto opportuno ricordare che sui rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno questa Corte ha già avuto occasione di enunciare i seguenti principi (sentenza 27 dicembre 1973, n.
183): a) l'attribuzione di potestà normativa agli organi delle Comunità europee, con la corrispondente limitazione di quella propria dei singoli Stati membri, ha, quanto all'Italia, sicuro fondamento nell'art.
11 della Costituzione, che legittima le limitazioni dei poteri dello Stato a favore delle Comunità in ordine all'esercizio delle funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale; Di fronte a questo contrasto, che indubbiamente sussiste non solo nell'ipotesi di norme interne successive incompatibili con quelle emanate dai competenti organi delle Comunità europee, ma anche nell'ipotesi di norme interne, legislative o regolamentari, di contenuto puramente riproduttivo, si pone il problema della loro eventuale disapplicazione, prospettato e risolto negativamente dalla Corte di cassazione, e qui riproposto, sia pure in via alternativa, e con diverse impostazioni e motivazioni, da entrambe le parti costituite in giudizio. Per quanto concerne le norme interne successive, emanate con legge o con atti aventi valore di legge ordinaria, questa Corte ritiene che il vigente ordinamento non conferisca al giudice italiano il potere di disapplicarle, nel presupposto d'una generale prevalenza del diritto comunitario sul diritto dello Stato.
Certamente non può accogliersi la soluzione, prospettata e respinta dalla Corte di cassazione, di una declaratoria di nullità della legge successiva interna, dovendosi escludere che il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche, sulla base d'un preciso criterio di ripartizione di competenze per determinate materie, "per l'assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dai trattati" (cfr.
art.
189 del Trattato di Roma), comporti come conseguenza una radicale privazione di efficacia della volontà sovrana degli organi legislativi degli Stati membri, pur manifestata nelle materie riservate dai trattati alla normazione comunitaria; tale trasferimento fa sorgere, invece, il diverso problema della legittimità costituzionale dei singoli atti legislativi. Non sembra nemmeno possibile configurare la possibilità della disapplicazione come effetto di una scelta tra norma comunitaria e norma interna, consentita di volta in volta al giudice italiano sulla base di una valutazione della rispettiva resistenza.
In tale ipotesi, dovrebbe riconoscersi al giudice italiano non già la facoltà di scegliere tra più norme applicabili, bensì quella di individuare la sola norma validamente applicabile, ciò che equivarrebbe ad ammettere il suo' potere di accertare e dichiarare una incompetenza assoluta del nostro legislatore, sia pur limitatamente a determinate materie, potere che nel vigente ordinamento sicuramente non gli è attribuito. Ne consegue che di fronte alla situazione determinata dalla emanazione di norme legislative italiane, le quali abbiano recepito e trasformato in legge interna regolamenti comunitari direttamente applicabili, il giudice è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale. Disapplicazione del diritto interno incompatibile, sentenza Granital del 5 giugno 1984 (170/84) 3.
- L'assetto dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno, oggetto di varie pronunzie rese in precedenza da questo Collegio, è venuto evolvendosi, ed è ormai ordinato sul principio secondo cui il regolamento della CEE prevale rispetto alle confliggenti statuizioni del legislatore interno.
Questo risultato viene, peraltro, in considerazione sotto vario riguardo.
In primo luogo, sul piano ermeneutico, vige la presunzione di conformità della legge interna al regolamento comunitario: fra le possibili interpretazioni del testo normativo prodotto dagli organi nazionali va prescelta quella conforme alle prescrizioni della Comunità, e per ciò stesso al disposto costituzionale, che garantisce l'osservanza del Trattato di Roma e del diritto da esso derivato (sentenze nn.
176, 177/81). Quando, poi, vi sia irriducibile incompatibilità fra la norma interna e quella comunitaria, è quest'ultima, in ogni caso, a prevalere.
Tale criterio opera, tuttavia, diversamente, secondo che il regolamento segua o preceda nel tempo la disposizione della legge statale.
Nel primo caso, la norma interna deve ritenersi caducata per effetto della successiva e contraria statuizione del regolamento comunitario, la quale andrà necessariamente applicata dal giudice nazionale.
Tale effetto caducatorio, com'è stato avvertito nelle più recenti pronunzie di questa Corte, è altresì retroattivo, quando la norma comunitaria confermi la disciplina già dettata - riguardo al medesimo oggetto, e prima dell'entrata in vigore della confliggente norma nazionale - dagli organi della CEE.
In questa evenienza, le norme interne si ritengono, dunque, caducate sin dal momento al quale risale la loro incompatibilità con le precedenti statuizioni della Comunità, che il nuovo regolamento ha richiamato.
Diversa è la sistemazione data fin qui in giurisprudenza all'ipotesi in cui la disposizione della legge interna confligga con la previgente normativa comunitaria.
È stato invero ritenuto che, per il fatto di contrastare tale normativa, o anche di derogarne o di riprodurne il contenuto, la norma interna risulti aver offeso l'art.
11 Cost.
e possa in conseguenza esser rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale. La soluzione testé descritta è stata delineata in altro giudizio (cfr.
sentenza n.
232/75) ed in sostanza così giustificata: il trasferimento dei poteri alla Comunità non implica, nella materia a questa devoluta, la radicale privazione della sovranità statuale; perciò si è in quell'occasione anche detto che il giudice nazionale non ha il potere di accertare e dichiarare incidentalmente alcuna nullità, dalla quale scaturisca, in relazione alle norme sopravvenute al regolamento comunitario, "un'incompetenza assoluta del nostro legislatore", ma è qui tenuto a denunciare la violazione dell'art.
11 Cost., promuovendo il giudizio di costituzionalità. La Corte è ora dell'avviso che tale ultima conclusione, e gli argomenti che la sorreggono, debbano essere riveduti.
L'assetto della materia va invece lasciato fermo sotto gli altri profili, che non toccano il rapporto fra la regola comunitaria e quella posteriormente emanata dallo Stato. Per l'esame da compiere, occorre guardare all'approccio della pregressa giurisprudenza, quale si è , nel complesso, disegnato, nei confronti del fenomeno comunitario.
Dalle decisioni già rese si ricava, infatti, un'utile traccia per riflettere sulla validità del criterio fin qui adottato.
Com'è di seguito spiegato, non vi è ragione per ritenere che il giudice sia abilitato a conoscere dell'incompatibilità fra la regola comunitaria e quella statale, o viceversa tenuto a sollevare la questione di costituzionalità, semplicemente sulla base dell'ordine cronologico in cui intervengono l'una e l'altra norma.
Giova al riguardo richiamare alcune premesse di ordine sistematico, poste nelle precedenti pronunzie, per controllarne il significato e precisare il risultato di questa nuova riflessione sul problema. 4.
- Vi è un punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno: i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato.
"Esigenze fondamentali di eguaglianza e certezza giuridica postulano che le norme comunitarie - , non qualificabili come fonte di diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno -, debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari".
Così la Corte ha statuito nella sentenza n.
183 del 1973.
In detta decisione è per la prima volta affermata la prevalenza del regolamento comunitario nei confronti della legge nazionale.
Questo criterio va considerato nel contesto della pronunzia in cui è formulato, e quindi inteso in intima e necessaria connessione con il principio secondo cui i due ordinamenti sono distinti e al tempo stesso coordinati.
Invero, l'accoglimento di tale principio, come si è costantemente delineato nella giurisprudenza della Corte, presuppone che la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da quello statale.
Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell'art.
11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è, esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento.
In questo senso va quindi spiegata l'affermazione, fatta nella sentenza n.
232/75, che la norma interna non cede, di fronte a quella comunitaria, sulla base del rispettivo grado di resistenza.
I principi stabiliti dalla Corte in relazione al diritto - nel caso in esame, al regolamento - comunitario, traggono significato, invece, precisamente da ciò: che l'ordinamento della CEE e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi, sono, come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati; il coordinamento discende, a sua volta, dall'avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell'art.
11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate. La disciplina emanata mediante il regolamento della CEE è destinata ad operare, con caratteristica immediatezza, così nella nostra sfera territoriale, come in quella di ogni altro Stato membro; il sistema statuale, dal canto suo, si apre a questa normazione, lasciando che le regole in cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono scaturite dagli organi competenti a produrle.
Ora, la Corte ha in altro giudizio affermato che l'esercizio del potere trasferito a detti organi viene qui a manifestarsi in un "atto", riconosciuto nell'ordinamento interno come "avente forza e valore di legge" (cfr.
sentenza n.
183/73).
Questa qualificazione del regolamento comunitario merita un cenno di svolgimento.
Le norme poste da tale atto sono, invero, immediatamente applicate nel territorio italiano per forza propria.
Esse non devono, né possono, essere riprodotte o trasformate in corrispondenti disposizioni dell'ordinamento nazionale.
La distinzione fra il nostro ordinamento e quello della Comunità comporta, poi, che la normativa in discorso non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti aventi forza di legge) dello Stato.
Quel che si è detto nella richiamata pronunzia, va allora avvertito, altro non significa, in definitiva, che questo: l'ordinamento italiano - in virtù del particolare rapporto con l'ordinamento della CEE, e della sottostante limitazione della sovranità statuale - consente, appunto, che nel territorio nazionale il regolamento comunitario spieghi effetto in quanto tale e perché tale.
A detto atto normativo sono attribuiti "forza e valore di legge", solo e propriamente nel senso che ad esso si riconosce l'efficacia di cui è provvisto nell'ordinamento di origine. 5.
- Il risultato cui è pervenuta la precedente giurisprudenza va, quindi, ridefinito, in relazione al punto di vista, sottinteso anche nelle precedenti pronunzie, ma non condotto alle ultime conseguenze, sotto il quale la fonte comunitaria è presa in considerazione nel nostro ordinamento.
Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema dell'ente sovrannazionale: cioè al solo sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità produttiva.
Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della "forza e valore", che il Trattato conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili.
Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l'osservanza di essa nel territorio nazionale. D'altra parte, la garanzia che circonda l'applicazione di tale normativa è - grazie al precetto dell'art.
11 Cost., com'è sopra chiarito - piena e continua.
Precisamente, le disposizioni della CEE, le quali soddisfano i requisiti dell'immediata applicabilità devono, al medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato.
Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore o successiva.
Il regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina della specie.
L'effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di caducare, nell'accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale.
In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto dall'abrogazione, o da alcun altro effetto estintivo o derogatorio, che investe le norme all'interno dello stesso ordinamento statuale, e ad opera delle sue fonti.
Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta - è stato detto nella sentenza n.
232/75, e va anche qui ribadito - nemmeno affetta da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice ordinario.
Il regolamento, occorre ricordare, è reso efficace in quanto e perché atto comunitario, e non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne le statuizioni.
Diversamente accadrebbe, se l'ordinamento della Comunità e quello dello Stato - ed i rispettivi processi di produzione normativa - fossero composti ad unità.
Ad avviso della Corte, tuttavia, essi, per quanto coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi.
Proprio in ragione, dunque, della distinzione fra i due ordinamenti, la prevalenza del regolamento adottato dalla CEE va intesa come si è con la presente pronunzia ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge interna non interferisce nella sfera occupata da tale atto, la quale è interamente attratta sotto il diritto comunitario.
La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della fonte statuale, solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno.
Fuori dall'ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia; e d'altronde, è appena il caso di aggiungere, essa soggiace al regime previsto per l'atto del legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità. Le osservazioni fin qui svolte non implicano, tuttavia, che l'intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte.
Questo Collegio ha, nella sentenza n.
183/73, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, nell'ipotesi contemplata, sia pure come improbabile, al numero 9 nella parte motiva di detta pronunzia.
Nel presente giudizio cade opportuno un altro ordine di precisazioni.
Vanno denunciate in questa sede quelle statuizioni della legge statale che si assumano costituzionalmente illegittime, in quanto dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi: situazione, questa, evidentemente diversa da quella che si verifica quando ricorre l'incompatibilità fra norme interne e singoli regolamenti comunitari.
Nel caso che qui è previsto, la Corte sarebbe, quindi, chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuno dei limiti della sovranità statuale, da esso medesimo posti, mediante la legge di esecuzione del Trattato, in diretto e puntuale adempimento dell'art.
11 Cost. II Costituzionalità dei regolamenti comunitari Impossibilità di pronunciarsi sull’incostituzionalità dei regolamenti, ma esistenza dei controlimiti , sentenza Frontini del 18 dicembre 1973 (183/73) 9.
- Appaiono egualmente infondati i dubbi relativi alla carenza di controllo giurisdizionale da parte di questa Corte, a salvaguardia dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione ai cittadini. Si deve anzitutto considerare che l'ordinamento della Comunità economica europea contiene uno speciale sistema di tutela giurisdizionale, caratterizzato dalla pienezza delle funzioni attribuite alla Corte di giustizia dagli artt.
164 e seguenti del Trattato.
La Corte di giustizia della Comunità, oltre ad assicurare "il rispetto del diritto nella interpretazione e nella applicazione del trattato" (art.
164), esercita il controllo di legittimità sugli atti normativi del Consiglio e della Commissione, con competenza a conoscere dei ricorsi "per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del trattato o di qualsiasi norma giuridica relativa alla sua applicazione, ovvero per sviamento di potere", proposti da uno Stato membro o da qualsiasi persona fisica o giuridica (art.
173, primo e secondo comma); ed ha potere di annullamento degli atti impugnati riconosciuti illegittimi, salva la facoltà di stabilire gli effetti dei regolamenti annullati che debbano essere considerati come definitivi (art.
174).
La Corte di giustizia è altresì competente a pronunciarsi in via pregiudiziale, alle condizioni stabilite dall'art.
177, sull'interpretazione del Trattato, sulla validità ed interpretazione degli atti emanati dalle istituzioni della Comunità, e sull'interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del Consiglio, quando questioni del genere siano sollevate "davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri". L'ampiezza della tutela giurisdizionale che l'ordinamento comunitario assicura contro gli atti dei suoi organi eventualmente lesivi di diritti o interessi dei singoli soggetti è già stata riconosciuta da questa Corte con la sentenza n.
98 del 1965, (che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità sollevata in riferimento agli artt.
102 e 113 della Costituzione, con riguardo alla pretesa specialità della Corte di giustizia come organo di giurisdizione e al contenuto della tutela giurisdizionale dalla medesima garantita). Occorre, d'altro canto, ricordare che la competenza normativa degli organi della C.E.E.
è prevista dall'art.
189 del Trattato di Roma limitatamente a materie concernenti i rapporti economici, ossia a materie in ordine alle quali la nostra Costituzione stabilisce bensì la riserva di legge o il rinvio alla legge, ma le precise e puntuali disposizioni del Trattato forniscono sicura garanzia, talché appare difficile configurare anche in astratto l'ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione italiana.
È appena il caso di aggiungere che in base all'art.
11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma - sottoscritto da Paesi i cui ordinamenti si ispirano ai principi dello Stato di diritto e garantiscono le libertà essenziali dei cittadini -, possano comunque comportare per gli organi della C.E.E.
un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana.
Ed è ovvio che qualora dovesse mai darsi all'art.
189 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali.
Deve invece escludersi che questa Corte possa sindacare singoli regolamenti, atteso che l'art.
134 della Costituzione riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, e tali, per quanto si è detto, non sono i regolamenti comunitari. Sentenza Granital citata: Questo Collegio ha, nella sentenza n.
183/73, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana, nell'ipotesi contemplata, sia pure come improbabile, al numero 9 nella parte motiva di detta pronunzia Come funzionano i controlimiti, Sentenza Fragd del 30 novembre 1989 (232/89) 3.1.
- Vero è che l'ordinamento comunitario - come questa Corte ha riconosciuto nelle sentenze sopra ricordate ed in altre numerose - prevede un ampio ed efficace sistema di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei singoli, di cui il ricorso incidentale alla Corte di Giustizia ex art.
177 del Trattato C.E.E.
costituisce lo strumento più importante; ed è non meno vero che i diritti fondamentali desumibili dai principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri costituiscono, secondo la giurisprudenza della Corte delle Comunità europee, parte integrante ed essenziale dell'ordinamento comunitario.
Ma ciò non significa che possa venir meno la competenza di questa Corte a verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana.
In buona sostanza, quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile; inoltre, va tenuto conto che almeno in linea teorica generale non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale si ritrovino fra i principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi nell'ordinamento comunitario. 4.
- Devesi a questo punto valutare se l'ipotesi configurata dal giudice remittente possa effettivamente integrare una violazione dell'art.
24 della Costituzione, in quanto venga ad incidere su quel principio supremo del nostro ordinamento costituzionale consistente, - come è affermato nella sentenza n.
18 del 1982 innanzi citata -, nell'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio. 4.2.
- In sostanza, il diritto di ognuno ad avere per qualsiasi controversia un giudice e un giudizio verrebbe a svuotarsi dei suoi contenuti sostanziali se il giudice, il quale dubiti della legittimità di una norma che dovrebbe applicare, si veda rispondere dalla autorità giurisdizionale cui è tenuto a rivolgersi, che effettivamente la norma non è valida, ma che tale invalidità non ha effetto nella controversia oggetto del giudizio principale, che dovrebbe quindi essere deciso con l'applicazione di una norma riconosciuta illegittima. Né, di fronte ad una possibile violazione di un principio fondamentale, potrebbero invocarsi, - come sostiene l'Avvocatura dello Stato -, le esigenze primarie dell'applicazione uniforme del diritto comunitario e della certezza del diritto.
Una simile valutazione comparativa appare invero difficilmente configurabile, e si può inoltre rilevare che ambedue le esigenze invocate non risulterebbero affatto compromesse, ove, pur facendo salvi gli effetti pregressi del regolamento invalidato, si lasciasse inalterata l'efficacia della pronuncia nella controversia oggetto del giudizio principale ed anche in tutti quei giudizi già iniziati dinanzi alle giurisdizioni nazionali prima della data di emanazione della sentenza invalidante. Infatti ove se ne riconoscesse la fondatezza, nel senso cioè di ritenere l'illegittimità costituzionale per violazione dell'art 24 della Costituzione della legge n.
1203 del 1957 nella parte in cui dando esecuzione all'art 177 del Trattato C.E.E.
consente alla Corte di Giustizia di escludere gli atti oggetto del giudizio principale dagli effetti di una propria sentenza incidentale che dichiara l'invalidità di un regolamento, una siffatta pronuncia non potrebbe trovare alcuna applicazione nella controversia che deve essere decisa dal giudice a quo. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e i controlimiti (caso Taricco II), ordinanza del 26 gennaio 2017 (24/2017) 1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, e la Corte d’appello di Milano hanno investito questa Corte della questione di legittimità costituzionale dell’art.
2 della legge 2 agosto 2008, n.
130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art.
325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957 (Testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco. 2.– Il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art.
11 Cost.; questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia.
Qualora si verificasse il caso, sommamente improbabile, che in specifiche ipotesi normative tale osservanza venga meno, sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi (sentenze n.
232 del 1989, n.
170 del 1984 e n.
183 del 1973). Non vi è inoltre dubbio che il principio di legalità in materia penale esprima un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva.
Tale principio è formulato dall’art.
25, secondo comma, Cost., per il quale «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Se l’applicazione dell’art.
325 del TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria al principio di legalità in materia penale, come ipotizzano i rimettenti, questa Corte avrebbe il dovere di impedirlo.
[…] Dopo aver messo a fuoco gli specifici profili di incompatibilità esistenti tra la regola che la sentenza resa in causa Taricco ha tratto dall’art.
325 del TFUE e i principi e i diritti sanciti dalla Costituzione, è necessario chiedersi se la Corte di giustizia abbia ritenuto che il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento italiano. Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali.
Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali.
Al contempo la legittimazione (art.
11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art.
2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art.
4, paragrafo 2, del TUE).
In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri.
[.. Ne consegue, in linea di principio, che il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale.
Parola finale alla Consulta (4 aprile 2018) : la "regola Taricco" contrasta col principio di determinatezza in materia penale Alla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza M.A.S., la Corte costituzionale ha ritenuto che tutte le questioni sollevate dai giudici rimettenti fossero non fondate, perché la “regola Taricco” doveva ritenersi inapplicabile nei rispettivi giudizi.
In entrambi i giudizi infatti si procedeva per fatti avvenuti prima dell’8 settembre 2015, sicché l’applicabilità degli artt.
160, terzo comma, e 161, secondo comma, del Codice penale e la conseguente prescrizione dei reati oggetto dei procedimenti a quibus erano riconosciute dalla stessa sentenza M.A.S., che aveva escluso gli effetti della “regola Taricco” rispetto ai reati commessi prima di quella data.
Comunque, secondo la Corte costituzionale, indipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l’8 settembre 2015, i giudici rimettenti non avrebbero potuto applicare la “regola Taricco”, perché in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione.
Infatti, un istituto come la prescrizione, che incide sulla punibilità della persona riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nell’ordinamento giuridico italiano rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione con formula di particolare ampiezza, ed è parso evidente il deficit di determinatezza che caratterizza sia l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”) sia la “regola Taricco” in sé.
Quest’ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell’art.
325 TFUE, è stata ritenuta irrimediabilmente indeterminata nella definizione del «numero considerevole di casi» in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita.
Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (articolo 101, secondo comma, Costituzione).
Ancor prima è stato ritenuto indeterminato l’articolo 325 TFUE, perché il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della “regola Taricco”, e una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso.
«Fermo restando – ha aggiunto la Corte costituzionale – che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la sentenza M.A.S., un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento».
Un rilievo analogo è stato svolto anche per la porzione della “regola Taricco” tratta dal paragrafo 2 dell’articolo 325 TFUE.
In questo caso, infatti, se anche il principio di assimilazione non desse luogo sostanzialmente a un procedimento analogico in malam partem, e potesse permettere al giudice penale di compiere un’attività priva di inaccettabili margini di indeterminatezza, ciò comunque non potrebbe avvenire sulla base del paragrafo 2 dell’articolo 325 TFUE, dal quale una persona non potrebbe desumere i contorni della “regola Taricco”.
In altri termini, qualora si reputasse possibile da parte del giudice penale il confronto tra frodi fiscali in danno dello Stato e frodi fiscali in danno dell’Unione, al fine di impedire che le seconde abbiamo un trattamento meno severo delle prime quanto al termine di prescrizione, ugualmente l’articolo 325, paragrafo 2, TFUE non perderebbe il suo tratto non adeguatamente determinato per fungere da base legale di tale operazione in materia penale, posto che i consociati non avrebbero potuto, né oggi potrebbero sulla base del solo quadro normativo, raffigurarsi tale effetto.
Ciò posto, la Corte ha concluso che «l’inapplicabilità della “regola Taricco”, secondo quanto riconosciuto dalla sentenza M.A.S., ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto dell’Unione» e che quindi non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel presupposto che tale regola fosse invece applicabile. Per i frequentanti di Diritto dell'Unione europea Elenco delle sentenze da studiare:15/5 : ottenimento e perdita della cittadinanza europea Micheletti7 luglio 1992, causa C-369/90 Kaur.
20.2.2001, causa C-192/99. Rottmann, 2 marzo 2010, causa C-135/08 16: i cittadini dinamici e i cittadini stanziali Governo della Comunità francese e governo vallone, 1 aprile 2008, Causa C-212/06 Ruiz Zambrano, 8 marzo 2011, Causa C-34/09 Dereci , 15 11.2011, Causa C-256/11 17 libertà di uscire e rientrare nel Paese di origine e di entrare in un Paese membro Jipa, 18 luglio 2008, causa C-33/07 O e B, 12 marzo 2014, causa C-456/12 22/5 art.18 TCE (21 TFUE) diretta applicabilità e applicazioni Baumbast, 17 settembre 2012, causa C-413/99 Trojani, 7 settembre 2004, causa C-456/02 Tas- Hagen, 26 ottobre 2006, Causa C-192/05 23 l’art.
24 della direttiva 2004/38 Brey, 19 settembre 2013, causa C-140/12 Dano, 11 novembre 2014, causa C-333/13 Garcia Nieto 25 febbraio 2016, causa C-299/14 24 il limite dell’ordine pubblico Orfanopoulos 29 aprile 2004, causa C-493/01 ZZ 4 giugno 2013, causa C-300/11 Rendon Marìn 13 settembre 2016 causa C-165/14 Avvertenze per i frequentanti Sentenze da conoscere per il corso di Diritto UE (sono tutte citate nel testo) Principio di attribuzione; procedure di revisione; poteri impliciti Pringle, C-370/12 del 27/9/2012 (vale anche per impugnazione atti del Consiglio europeo) Mangold,, C-144/04 del 22/11/2005 AETS, causa 22/70, del 31 marzo 1971 (vale per potere impliciti e atti atipici) Istituzioni Roquette frères, causa 138/79, del 29.10.1980 (Leale cooperazione tra istituzioni, consultazione P.E.) Atti Regolamenti Yusuf, causa T-306/01 del 21 settembre 2005 (portata generale) __________________________________________________________________________________ Leonesio causa 93/71 del 17 maggio 1972 (applicabilità diretta= Variola, causa C-43/98, 11 gennaio 2001 Direttive Marleasing, causa C-106/89 del 13 novembre 1990 (interpretazione conforme9 Van Duyn, causa 41/74 del 4 dicembre 1974 (effetti diretti9 Faccini Dori, causa C-91/92 del 14 luglio 1994 (effetti orizzontali e verticali) Brasserie du pecheur, causa C-46/93 del 5 marzo 1996 C-69/90 del 19 novembre 1991 ___________________________________________________________________ Decisioni Grad , causa 9/70 del 6 ottobre 1970 _____________________________________________________________ Controllo giudiziario Les Verts, C-294/83 del 23 aprile 1986 completezza della tutela Competenza in via pregiudiziale ____________________________________________ CILFIT, 283/81 Foto-fFost, 314/85 del 22.10.87, Factortame, causa C-213/89 del 19 giugno 1990 (collaborazione giudici nazionali/Corte9 Sentenze unionali e nazionali su ratifica dei trattati e rapporti tra diritto interno e diritto comunitario Corte di giustizia Van Gend en Loos, 26/62, 5 febbraio 1963 Simmenthal causa 106/77 del 9 marzo 1978 ___________________________________________________________________ Corte cost.
tedesca, sentenza 12 ottobre 1993, (ratifica T.
Maastricht9 29 giugno 2009, ratifica Lisbona _________________________________________________________ Corte cost.
italiana Costa ENEL, 7 marzo 1964, n.
14 Frontini, 22 dicembre 1973, n.
183 ICIC 30ottobre 1975 Granital, 8 giugno 1984, n.
170 ______________________________________________________ Diritti uomo Nold, causa 4/73 del 14 maggio 1974 Kadi, , causa C-402/05 P Melloni , causa C-399/11 del 26 febbraio 2013 Akeberg e Fransson, causa C-617/10, del 26 febbraio 2013 Relazioni esterne AETS, causa 22/70 del 31 marzo 1971 (competenza a concludere accordi) Parere OMC, 1/94 del 15 novembre 1994 (competenza a concludere accordi) Parere 1/03, Convenzione di Lugano del 7 febbraio 2006 (competenza esclusiva a concludere accordi

Curriculum

Claudia Morviducci Curriculum vitae Laureata in legge nel 1972 presso l’Università di Firenze, è stata assistente incaricata di Diritto internazionale presso la facoltà di Giurisprudenza di Roma fino al maggio 1975. Il 1 luglio 1975 ha preso servizio come assistente ordinario di Diritto internazionale presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze e dal dicembre 1977 al dicembre 1982 è stata professore incaricato di Diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Catania. A partire dal 1° settembre 1982 è stata nominata Professore associato di Diritto delle Comunità europee presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze. Ritenuta idonea dalla Commissione giudicatrice della procedura di valutazione comparativa per il reclutamento di un professore ordinario del settore scientifico disciplinare N14X della facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Siena (9 luglio 2001), è stata chiamata sulla cattedra di Diritto delle Comunità europee dal Consiglio di facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze del 31 ottobre 2001. Dal novembre del 2001 è stata coordinatrice del Master in Studi europei, istituito presso la Facoltà di Scienze Politiche di Firenze, e ha tenuto presso la propria Facoltà vari corsi di Diritto dell'Unione europea avanzato e Moduli Jean Monnet. Dal 1 novembre 2008 è stata chiamata alla cattedra di Diritto dell'Unione europea (canale M/Z) della Facoltà di Giurisprudenza di Roma TRE, dove ha insegnato anche Diritto dell'Unione europea avanzato (l'Azione esterna dell'Unione europea; Politiche di immigrazione e asilo). Ha partecipato nel 2005 e nel 2011 alle commissioni per l'esame di avvocato Nel 2011 ha preso parte come commissario al concorso per la carriera diplomatica. Dal 2016 al 2019 è stata Presidente della Commissione paritetica del Dipartimento di giurisprudenza di Roma Tre.